Responsabilità medica

 LA LEGGE GELLI E LA RIFORMA SULLA RESPONSABILITÀ MEDICA

 

Tre anni e mezzo di lavori parlamentari nelle Commissioni permanenti e consultive, due passaggi in aula in Camera dei Deputati ed uno al Senato e poi il 28 febbraio 2017, dopo molteplici consultazioni ed audizioni, la Camera dei Deputati ha definitivamente approvato, con legge dello Stato n. 24 dell’8 marzo 2017 e con entrata in vigore dal 1° aprile 2017,  il disegno di legge C-259, proposto dall’onorevole Federico Gelli, recante “Disposizioni in materia di sicurezza delle cure e di responsabilità professionale degli esercenti le professioni sanitarie”.

Si tratta, senza dubbio alcuno, di una delle più importanti riforme legislative dell’ultimo periodo, che occuperà, nei prossimi anni, dottrina e giurisprudenza in uno sforzo interpretativo di alcuni aspetti della Riforma forse non troppo chiari e di cui questa giornata di studio, che realizza il continuo di quella tenutasi l’anno scorso, e l’altro anno ancora, ha pure come obiettivo; in ogni caso è certo che la Novella avrà un impatto rilevantissimo sulle regole della responsabilità sanitaria di strutture sanitarie pubbliche e private, sugli operatori sanitari, sui pazienti, ma anche sulle Compagnie di Assicurazione.

La nuova legge affronta in maniera piuttosto organica l’intreccio della responsabilità penale e civile dei medici ed operatori sanitari, e più in generale disciplina i temi della sicurezza delle cure e del rischio sanitario, della responsabilità delle strutture sanitarie e sociosanitarie pubbliche e private e le modalità di svolgimento dei procedimenti giudiziari aventi ad oggetto la responsabilità medica, avviandosi quindi a diventare un micro sistema legislativo forse tra i più importanti in campo sanitario, dovendosi tenere anche conto dei decreti attuativi che  successivamente, ed entro i termini si spera rispettati, dovranno essere promulgati.

Il quadro normativo e giurisprudenziale in cui si inserisce la legge Gelli-Bianco è quello delineato anteriormente, in modo succinto e poco chiaro, dalla legge Balduzzi, rispetto dunque all’assetto precedente, le principali novità introdotte dalla riforma si snodano in ambito: civile, amministrativo e penale.

Le norme, riterrei caratterizzanti la Riforma appaiono essere l’art. 5, il quale dispone che: «Gli esercenti le professioni sanitarie, nell'esecuzione delle prestazioni sanitarie con finalità preventive, diagnostiche, terapeutiche, palliative, riabilitative e di medicina legale, si attengono, salve le specificità del caso concreto, alle raccomandazioni previste dalle linee guida pubblicate ai sensi del comma 3 […] In mancanza delle suddette raccomandazioni, gli esercenti le professioni sanitarie si attengono alle buone pratiche clinico-assistenziali»;

Il successivo art. 6 introduce nel codice penale l'art. 590-sexies, che esclude la punibilità solo per i reati di  omicidio colposo e lesioni personali colpose, qualora l'evento si sia verificato per imperizia, ma siano state rispettate le predette raccomandazioni e buone pratiche, sempre che le raccomandazioni previste dalle predette linee guida risultino adeguate alle specificità del caso concreto.  

All'art. 7, la legge Gelli-Bianco ribadisce la responsabilità contrattuale ex artt. 1218 e 1228 c.c. della struttura sanitaria o sociosanitaria pubblica o privata che, nell'adempimento della propria obbligazione, si avvalga dell'opera di esercenti la professione sanitari.

Nel comma 3 la riforma sancisce espressamente che: «L'esercente la professione sanitaria di cui ai commi 1 e 2 risponde del proprio operato ai sensi dell'articolo 2043 del codice civile, salvo che abbia agito nell'adempimento di obbligazione contrattuale assunta con il paziente. Il giudice, nella determinazione del risarcimento del danno, tiene conto della condotta dell'esercente la professione sanitaria ai sensi dell'articolo 5 della presente legge e dell'articolo 590-sexies del codice penale, introdotto dall'articolo 6 della presente legge».

Ai commi 4 e 5, dispone che: «Il danno conseguente all'attività della struttura sanitaria o sociosanitaria, pubblica o privata, e dell'esercente la professione sanitaria è risarcito sulla base delle tabelle di cui agli articoli 138 e 139 del codice delle assicurazioni private» e che tali disposizioni costituiscono norme imperative ai sensi del codice civile.

 

Come ha dunque già sottolineato lo stesso Gelli: “La riforma rispecchia la doppia finalità della legge, tesa a conciliare l’esigenza di garantire la sicurezza delle cure a tutela dei pazienti con quella di assicurare maggiore serenità agli esercenti la professione sanitaria, che al momento subiscono gli effetti di un enorme contenzioso, che a sua volta determina effetti devastanti a causa del ricorso alla cosiddetta ‘medicina difensiva”.

L’obiettivo è quello di ridurre il contenzioso civile e penale in materia di responsabilità medica e migliorare il livello di tutela dei pazienti attraverso una migliore valutazione e gestione del c.d. clinical risk management; le criticità del settore sono invero andate acuendosi nel tempo: aumento dei numero delle denunce per malpractice medica, crescita del costo medio dei sinistri, ingenti perdite economiche per le imprese di assicurazione, costi assicurativi crescenti per il settore sanitario, abnorme crescita del fenomeno della medicina difensiva, con il corollario di minore fiducia nei confronti della sanità e maggiori difficoltà nel rapporto medico e paziente.

Naturalmente la legge ha, come spesso accade, anche una serie di zone d’ombra che saranno, di certo, oggetto di interventi interpretativi giurisprudenziali, si spera chiarificatori; il settore della Sanità rappresenta un ganglo fondamentale di ogni Stato democratico e le vicende che ruotano intorno alla “Responsabilità sanitaria”  hanno risvolti delicatissimi sia per quanto attiene gli aspetti economici con enormi ricadute sull’intero comparto, [1] che con riguardo a profili psicologici ed umani che una vicenda di colpa medica genera sui pazienti, sui familiari, ma anche sugli operatori sanitari coinvolti.

A distanza di due anni dall’entrata in vigore della legge Gelli, e dopo diversi anni di iter parlamentare, lo scorso 11 gennaio 2018 con il n. 3 è entrata in vigore la cd legge “ Lorenzin”; l’impianto normativo affronta la riforma degli ordini professionali, disciplina le sperimentazioni cliniche, passa per la medicina di genere e la lotta all’abusivismo professionale, ma soprattutto e per quello che qui interessa, con l’art. 11 apporta alcune modifiche alla legge n. 24/2017; in particolare la disposizione normativa ricordata interviene sull’azione di rivalsa della struttura sanitaria nei confronti dell’esercente la professione sanitaria in caso di dolo o colpa grave oltre ad inserire il nuovo comma 7 bis all’art. 14 della “Gelli” ampliando la funzione del Fondo ed agevolando l’accesso alla copertura sanitaria da parte degli esercenti le professioni sanitarie.    

Ancora ed il successivo 28 febbraio u.s. è stato pubblicato il decreto del Ministero della Salute che istituisce il Sistema Nazionale Linee Guida e di cui meglio infra con un rapido “resoconto”.         

Le pagine che seguono hanno lo scopo di fornire un succinto ma in ogni caso, mi auguro, chiaro contributo informativo, realizzato con l’aiuto dei Colleghi di Studio Maria Giugliano, Giuseppe Pepe, Corinna Della Monica, Miriam Cuomo e delle dott.sse Annalisa Di Maio e Claudia Coppola; un particolare ringraziamento và all’Amico Avv. Catello Vitiello, Deputato della Repubblica Italiana, che nonostante i suoi impegni istituzionali, in maniera immediata oltre che generosa ha “risposto” al mio invito portandoci, con il paragrafo da Lui curato, il Suo esperto contributo su alcuni delicati profili penali ora regolamentati da un recentissimo intervento della Suprema Corte reso nella sua configurazione più autorevole.

Lo scritto che segue, in continuità con quello dell’anno passato, si spera possa rappresentare lo stimolo di un nuovo ed ulteriore banco di confronto, ma anche di studio e poi di dialogo tra i Professionisti intorno alla Riforma della Responsabilità Medica.

Questa giornata di approfondimento, che ora qui si apre, e che segue quella che si tenne esattamente un anno fa, è però frutto (ancora una volta) dell’impegno ma anche della  passione dell’Amico dott. Giovanni De Caro, espertissimo medico legale, e vera anima e cuore pulsante di questa iniziativa culturale a cui rivolgo il mio personale ringraziamento.

Buona lettura a Tutti.  

C.mmare di Stabia, lì 4 maggio 2019

Avv. Vincenzo Ruggiero.    

 

 

  1. LA RESPONSABILITÀ CIVILE

(a cura dell’Avv. Vincenzo Ruggiero e dell’Avv. Giuseppe Pepe)

 

Il settore della responsabilità medica si contraddistingue per essere caratterizzato da regole peculiari, tanto che autorevole dottrina ha definito la responsabilità sanitaria “un sottosistema della responsabilità civile” (R. De Matteis, La responsabilità medica. Un sottosistema della responsabilità civile, 1995, Torino).

La peculiarità di tale sottosistema è plasticamente dimostrata dal dibattito che anima dottrina e giurisprudenza da ormai almeno quatto decenni sul tema della natura contrattuale o extracontrattuale della responsabilità della struttura sanitaria e del medico da essa dipendente, sui criteri di imputazione della responsabilità stessa e sulla distribuzione degli oneri probatori nei giudizi di medical malpractice.

Per quanto concerne la struttura è fuori di dubbio che la responsabilità sia di matrice contrattuale.

La giurisprudenza, dopo avere superato la tesi della qualificazione del rapporto struttura-paziente in termini di contratto d’opera professionale, ha delineato una nuova tipologia negoziale, definita alternativamente contratto di assistenza sanitaria (con un implicito richiamo all’art. 18 della L. 833/1978, istitutiva del Servizio Sanitario Nazionale) o contratto di spedalità.

Questo indirizzo interpretativo è stato avallato dalla Corte di Cassazione nella sua composizione più autorevole con la sentenza di Cass. SS.UU. n. 9556/2002, confermata successivamente da Cass. SS.UU. 577/2008.

L’Ente sanitario non si obbliga soltanto a prestare, tramite i propri ausiliari, assistenza medica, ma anche a fornire vitto e alloggio, assicurare il funzionamento degli impianti e delle dotazioni tecnologiche, a eseguire ogni altro servizio che sia necessario per la cura e la riabilitazione del paziente.

Le disquisizioni sulla responsabilità della struttura sanitaria non hanno interessato la L. 183/2012 (cd. legge Balduzzi), mentre è stata espressamente disciplinata dalla L. 8 marzo 2017 n. 24 (cd. legge Gelli-Bianco).            

Momento centrale della riforma è, certamente, l’art. 7 la cui rubrica recita “Responsabilità civile della struttura e dell’esercente la professione sanitaria”. Trattasi di una norma che – almeno nella sua stesura iniziale – intendeva portare a compimento il disegno solo abbozzato dalla legge Balduzzi.

La novella legislativa conferma, quindi, le pacifiche conclusioni a cui era da tempo approdata l’elaborazione giurisprudenziale e dottrinale in ordine alla natura del rapporto contrattuale paziente-struttura.

La Legge Gelli, invece, sembra proporre un modello di responsabilità aquiliana per il medico dipendente della struttura pubblica o privata.

Lo stesso art. 7, inizialmente, precisava che «l’esercente la professione sanitaria di cui ai commi 1 e 2 risponde del proprio operato ai sensi dell’art. 2043 del codice civile». La norma, però, così come modificata dal Senato l’11 gennaio 2017 e approvata definitivamente dalla Camera dei Deputati in ultima lettura il 28 febbraio 2017, esclude espressamente dal regime di cui all’art. 2043 c.c. l’ipotesi in cui il medico «abbia agito nell’adempimento di obbligazione contrattuale assunta con il paziente».

Un’interpretazione sistematica della norma che non voglia vanificare il richiamo operato dal legislatore all’art. 2043 c.c., sembrerebbe suggerire che l’ultimo inciso possa trovare applicazione solo quando il medico abbia concluso con il paziente un contratto d’opera professionale. Tuttavia, l’ampia espressione lessicale utilizzata dal Senato («obbligazione contrattuale») potrebbe aprire la strada a differenti orientamenti interpretativi, specialmente se si considera che la responsabilità del medico dipendente (anche dopo la legge Balduzzi) è stata ricondotta all’alveo contrattuale avendo la giurisprudenza (a partire da Cass. civ. 22 gennaio 1999 n. 589) aderito alla teoria del cd. “contatto sociale”, elaborata in Germania agli inizi degli anni ’40 dello scorso secolo e adottata in Italia da una corrente del formante dottrinale capeggiata da Carlo Castronovo.

Auspichiamo che il dibattito che si era aperto con il richiamo operato all’art. 2043 c.c. dalla legge Balduzzi si chiuda con l’accettazione e la condivisione di un modello dualistico a cui pare voglia condurre la Legge Gelli-Bianco n. 24/2017: responsabilità contrattuale per la struttura sanitaria – responsabilità extracontrattuale per il medico dipendente. Rimane non chiaro, come pocanzi detto, l’ultimo inciso dell’art. 7 comma 3, laddove si fa salva l’ipotesi in cui il medico «abbia agito nell’adempimento di obbligazione contrattuale assunta con il paziente». Per quest’ultimo profilo, l’utilizzo di formule differenti, come per esempio «salvo l’ipotesi in cui il medico abbia concluso un contratto d’opera professionale», sarebbero state preferibili, nonostante l’intento del legislatore sia chiaramente volto a ricondurre nell’ambito aquiliano la responsabilità del medico c.d. dipendente.

In definitiva, se il fugace richiamo all’art. 2043 c.c., contenuto nel primo comma dell’art. 3, L. 183/2012 (Legge Balduzzi) [2]era stato da molti ritenuto troppo labile per fondare un nuovo regime di responsabilità, l’art. 7 della Legge Gelli propende, come si è visto, per un regime bipartito, assoggettando a responsabilità contrattuale i soggetti (strutture e medici liberi professionisti) che dispongano di un pieno governo del proprio rischio e delle risorse strutturali destinate allo svolgimento di un’attività sanitaria a favore dei “propri” pazienti (vuoi in forza di un rapporto autenticamente contrattuale, vuoi attraverso l’“accettazione” del paziente nel presidio Ospedaliero). Mentre i medici dipendenti, e più in generale tutti coloro i quali a diverso titolo svolgano la loro attività all’interno di una struttura o in regime di convenzione con il Servizio Sanitario Nazionale, operando “per conto terzi”, risponderanno invece ex art. 2043 c.c. (responsabilità extracontrattuale).

Questa impostazione della riforma Gelli, però, è tutt’altro che una novità per il nostro ordinamento: tale scelta infatti si limita a ristabilire le regole di responsabilità civile delineate dalla legislazione vigente e ribaltate nel corso degli anni dall’attività interpretativa della giurisprudenza a partire da Cass. civ. 589/1999 (finalizzata ad ampliare i margini di garanzia del paziente) per cui, il medico dipendente della struttura pubblica o privata, non legato al paziente da alcun contratto, dovrebbe comunque rispondere nei confronti di questi in virtù di un “contatto sociale”. Si torna quindi all’ordinario regime: responsabilità contrattuale per chi agisce in forza di un contratto e/o nell’adempimento di un obbligo direttamente assunto verso il paziente, extracontrattuale negli altri casi.

Proprio in quest’ottica la legge in esame precisa che la regola aquiliana non si applica alla responsabilità del medico che, pur operando all’interno di una struttura, abbia agito in forza di un rapporto contrattuale fiduciario con il paziente. D’altro canto, il professionista convenzionato con il SSN impegnerà la responsabilità del servizio sanitario medesimo (in linea con Cass. 27 marzo 2015, n. 6243)[3] senza risponderne a titolo contrattuale.

Quanto alle strutture sanitarie o sociosanitarie pubbliche o private nulla sembra variare, venendo riaffermata la loro responsabilità ai sensi degli artt. 1218 e 1228 c.c. per le condotte colpose o dolose degli “esercenti la professione sanitaria, anche se scelti dal paziente e ancorchè non dipendenti”.

Ciò posto, non è scontato che una ricostruzione in chiave extracontrattuale della responsabilità del c.d. medico dipendente abbia gli effetti sperati sotto il profilo dell’overdeterrence, della sostenibilità del sistema dal punto di vista assicurativo e della riduzione del contenzioso da medical malpractice. La responsabilità della struttura continua a essere contrattuale e l’ente ospedaliero risponde contrattualmente ex art. 1228 c.c. dei fatti dei propri ausiliari (ora, in maniera espressa, anche dei fatti dei liberi professionisti che utilizzano la struttura). Si può dunque ragionevolmente dubitare che un diverso regime di responsabilità per il medico dipendente comporti un cambiamento significativo.  

Peraltro, come già evidenziato da autorevole dottrina, non si può escludere che, anche una ricostruzione della responsabilità del medico dipendente in termini extracontrattuali, giunga poi, “alla luce del principio di vicinanza della prova e al meccanismo della res ipsa loquitur, a delineare un assetto probatorio diverso da quello che vorrebbe sempre e comunque il paziente gravato della prova della colpa del medico” (R. Breda, La responsabilità medica dell’esercente la professione sanitaria alla luce della c.d. legge Balduzzi: ipotesi ricostruttive a confronto, in Riv. it. med. leg., 751 ss).

Al contrario, si ritiene che in questo difficilissimo settore della responsabilità civile un aiuto possa arrivare da una più corretta e precisa individuazione della prestazione del sanitario e del contenuto della prova liberatoria in capo alla struttura che si trovi a rispondere dei fatti dei propri ausiliari. In questo senso - come si avrà modo di spiegare nel prosieguo - le linee guida e le buone pratiche accreditate (cui fa riferimento, seppure nell’ambito penale, la legge Balduzzi), pur tenendo in considerazione “le specificità del caso concreto” (così come previsto dalla recentissima legge Gelli), possono essere di aiuto nel tentare di trovare un equilibrio in questo particolare settore. Il tema di fondo è, quindi, quello dell’onere della prova nella responsabilità sanitaria; e non solo e non tanto con riferimento alla distribuzione dei carichi probatori, ma al contenuto degli stessi. Al fine di analizzare tali aspetti, è opportuno in via preliminare chiarire come le regole in materia di onere della prova nei giudizi sulla responsabilità medica si siano evolute nel corso del tempo.

 

 Oneri di allegazione e prova incombente sulle parti processuali

 

 

  1. ONERE DELLA PROVA,

DISTRIBUZIONE DEI CARICHI PROBATORI E NESSO DI CAUSA.

(a cura dell’Avv. Giuseppe Pepe)

 

Gli elementi caratteristici delle regole in materia di responsabilità medica sono da sempre oggetto, da parte dell’interprete che a essi si rapporta, di un giudizio in progress. In questo contesto, infatti, la giurisprudenza ha avuto un ruolo chiave: in particolare, sia i giudici di legittimità sia quelli di merito, valorizzando il proprio ruolo creativo, hanno nel corso del tempo configurato, ridisegnato e plasmato le regole relative alla distribuzione dell’onere della prova tra le parti nei giudizi in materia di responsabilità medica.

L’evoluzione dell’onere della prova in questo settore della responsabilità civile può considerarsi una sorta di itinerario giurisprudenziale, caratterizzato da tappe ben precise. Seguendo, infatti, una scansione cronologica e per necessità semplificativa, si possono individuare, dagli anni ‘50 ad oggi, cinque stagioni, ognuna caratterizzata da regole peculiari elaborate dalla giurisprudenza nel tentativo, non sempre riuscito, di tenere in considerazione le peculiarità di tale settore.

In particolare, è possibile rinvenire una prima stagione che va dagli anni ’50 fino agli anni ’70, caratterizzata dalla qualificazione dell’obbligazione del sanitario (genericamente inteso sia come medico sia come struttura) come obbligazione di mezzi, con conseguente onere del paziente di dimostrare la difettosa esecuzione della prestazione, nonché il nesso eziologico tra la negligenza, imprudenza, imperizia del sanitario e il danno ricevuto.

Le regole delineate dalla giurisprudenza degli anni ’50 e ’60, tipiche di una qualificazione aquiliana della responsabilità del medico, vengono però rivisitate dalla giurisprudenza con la nota sentenza della Cass. n. 6141/1978, che applica per la prima volta la distinzione tra interventi di facile e interventi di difficile esecuzione come criterio di ripartizione dell’onere probatorio, aprendo una seconda stagione[4]. Secondo i giudici di legittimità, nei casi di difficile esecuzione spetta al paziente il compito di dimostrare l’errore in cui è incorso il sanitario, attraverso una ricostruzione precisa delle modalità con cui è stata eseguita ogni fase dell’intervento. Nell’ipotesi, invece, di interventi di facile esecuzione la dimostrazione, da parte dell’attore, del peggioramento delle proprie condizioni di salute costituisce, in base a un meccanismo presuntivo, la prova dell’inadeguata e negligente esecuzione della prestazione professionale.

Spetta al sanitario dimostrare che l’esito peggiorativo è stato causato dal sopravvenire di un evento imprevedibile o dalle condizioni fisiche del malato.

Tale meccanismo presuntivo - che ben ricorda la regola res ipsa loquitur dei sistemi anglosassoni o la prova prima facie tipica del sistema tedesco - non ha incontrato il favore della dottrina maggioritaria, tanto da essere definito “un espediente retorico piuttosto maldestro” in grado di configurare una responsabilità oggettiva del medico, con conseguente trasformazione dell’obbligazione di quest’ultimo da obbligazioni di mezzi a obbligazioni di risultato.

La regola res ipsa loquitur sembra aver aggravato la posizione del medico o dell’ente ospedaliero, determinando un’inversione di tendenza. Infatti, dagli anni ’80 in poi il problema della deterrenza in ambito sanitario è particolarmente sentito. In realtà, la giurisprudenza ha applicato tale regola in modo distorsivo, finendo per attribuire al convenuto l’onere di provare il singolo fattore che ha eziologicamente cagionato il danno lamentato (c.d. rischio del fatto impedivo ignoto). Al contrario, tale regola avrebbe potuto costituire un utile strumento di equilibrio, se si fosse prestata maggiore attenzione alla prova liberatoria in capo al sanitario, permettendo a quest’ultimo di liberarsi da responsabilità con la dimostrazione di aver tenuto un comportamento diligente, prudente e perito, senza dover provare il singolo fattore produttivo dell’evento dannoso. Inoltre, è innegabile che la regola in esame ha per la prima volta previsto un unico criterio di ripartizione dell’onere della prova a fronte di titoli di responsabilità differenti (aquiliana per il medico dipendente e contrattuale per la struttura o il libero professionista), anche se contrassegnati da fattispecie del tutto simili.

La ripartizione dell’onere della prova delineata da Cass. n. 6141/1978 ha caratterizzato il panorama giurisprudenziale in materia di responsabilità medica per più di vent’anni.

Una nota pronuncia delle Sezioni Unite del 2001 (Cass., SS.UU., 30 ottobre 2001 n. 13533), seppure relativa ad un caso non attinente alla responsabilità sanitaria, ha indirettamente dato avvio a una terza stagione. Con tale sentenza i giudici di legittimità - facendo riferimento a esigenze di omogeneità, al principio di persistenza del diritto e a quello di vicinanza della prova – hanno stabilito, in materia di responsabilità contrattuale, un’unica regola probatoria sia nel caso in cui venga proposta domanda di adempimento, di risoluzione o di risarcimento, sia nel caso in cui si agisca per il mancato o l’inesatto adempimento. In tutte queste ipotesi il creditore è tenuto a dimostrare esclusivamente la fonte del suo diritto, spettando al debitore la prova di aver adempiuto.

Tale principio è stato recepito, nel campo della responsabilità medica, da due sentenze della S.C. - la n. 11148 e la n. 10297 del 2004 - le quali hanno rivisto il ruolo della distinzione tra interventi di facile e difficile esecuzione alla luce del nuovo assetto in materia di onere della prova delineato dalle Sezioni Unite nel 2001 e alla luce della qualificazione in termini contrattuali sia della responsabilità della struttura sia quella del medico c.d. dipendente.

Con quest’ultime pronunce, infatti, i giudici di legittimità hanno attribuito al paziente il solo onere di dimostrare l’esistenza del contratto e l’aggravamento della situazione patologica o l’insorgere di nuove patologie per effetto dell’intervento, spettando invece all’ente e/o al sanitario la prova che la prestazione professionale è stata eseguita diligentemente e che gli esiti peggiorativi sono stati determinati da un evento imprevisto e imprevedibile. Secondo i giudici, quindi, la distinzione tra prestazione di facile esecuzione e prestazioni implicanti la risoluzione di problemi di speciale difficoltà, non costituisce più un criterio per distribuire l’onere della prova, ma deve essere adoperata per valutare il grado di diligenza e il corrispondente grado di colpa, restando comunque a carico del sanitario la prova che la prestazione è di difficile esecuzione.

Due le questioni aperte a seguito delle citate pronunce del 2004.

La prima - tutt’ora non risolta (vedi infra) – concerne il contenuto della prova liberatoria in capo al sanitario: sotto questo profilo, la S.C. è volutamente ambigua se non contraddittoria, poiché, da una parte, afferma che il debitore deve provare che la prestazione è stata eseguita in modo diligente; dall’altra, ritiene necessaria la dimostrazione del singolo evento imprevisto e imprevedibile che ha causato l’evento peggiorativo. Tuttavia, in diverse pronunce successive al 2004, si riscontra la tendenza a oggettivizzare sempre più la responsabilità del sanitario, obbligandolo a dimostrare il singolo fattore che ha reso impossibile l’esecuzione della prestazione.

In secondo luogo, nelle pronunce del 2004 non viene chiarito su chi debba gravare la prova del nesso eziologico tra prestazione ed evento dannoso: la giurisprudenza immediatamente successiva è però univoca nel ritenere che sia a carico del danneggiato la prova del nesso di causalità tra azione/omissione ed evento.

In discontinuità con tale orientamento giurisprudenziale, si sono pronunciate le Sezioni Unite n. 577/2008, che hanno aperto una quarta stagione in materia di responsabilità medica, tutta incentrata sulla presunzione del nesso causale.

Le Sezioni Unite, infatti, condividono i principi recepiti in ambito sanitario dalla stessa S.C. nel 2004 e dalla giurisprudenza successiva, ma se ne discostano in punto di nesso causale, ritenendo che tale prova non debba essere fornita dal paziente-attore. Secondo i giudici di legittimità del 2008, quindi, il paziente si dovrebbe limitare ad allegare un inadempimento qualificato, cioè astrattamente idoneo a cagionare l’evento pregiudizievole, spettando al debitore provare che tale inadempimento non vi è stato o che, pur esistendo, non è stato eziologicamente rilevante.

Salvo posizioni minoritarie, la scelta delle Sezioni Unite non ha incontrato l’avallo della dottrina, che ha sia sottolineato come la presunzione in punto di nesso causale non permetta di distinguere il piano della colpa da quello propriamente eziologico, sia ha ritenuto tale soluzione non conforme al principio di vicinanza della prova, in quanto in grado di configurare una responsabilità a carattere oggettivo per il singolo professionista e per la struttura sanitaria.

Inoltre, come si avrà modo di spiegare nel prossimo paragrafo, la soluzione adottata dalle Sezioni Unite è stata altresì in parte disattesa dalla giurisprudenza successiva, che ha spesso richiamato il precedente orientamento sul punto, attribuendo al paziente la dimostrazione del nesso tra condotta ed evento pregiudizievole.

Diversi, poi, sono gli aspetti irrisolti dopo le Sezioni Unite n. 577/2008. In primo luogo, non è chiaro il contenuto dell’allegazione cui è tenuto l’attore in giudizio e, soprattutto, quale debba essere il grado di specificità di tale allegazione.

In secondo luogo, si registrano non poche incertezze relativamente al contenuto della prova liberatoria in capo al medico o alla struttura ospedaliera, che si trova a dover rispondere altresì dell’operato del proprio personale ai sensi dell’art. 1228 c.c.

Si tratta di aspetti centrali anche dopo l’entrata in vigore della legge Balduzzi e della recente legge Gelli. Come già chiarito, tali riforme legislative sembrano aver inquadrato nell’alveo aquiliano la responsabilità del c.d. medico dipendente; ciò nonostante la natura della responsabilità della struttura sanitaria rimane contrattuale, con la conseguenza che l’ente ospedaliero è tenuto a fornire una prova liberatoria sia con riferimento all’adempimento delle proprie obbligazioni sia con riferimento all’operato dei propri dipendenti in virtù di quanto stabilito dall’art. 1228 c.c.

Punto fondamentale sta, quindi, nell’individuare, pur tenendo conto delle peculiarità del caso concreto, criteri generali, ma precisi, che permettano di chiarire il contenuto dei temi di prova assegnati a ciascuna delle parti in causa. Si precisa fin da ora che le considerazioni che seguono hanno come punto di partenza la natura contrattuale della responsabilità del convenuto (sia medico sia struttura sanitaria): la giurisprudenza successiva alle Sezioni Unite, che si è occupata di tali aspetti, muove da questo assunto. Si deve evidenziare, tuttavia, che una più precisa individuazione dei profili concretizzanti la colpa professionale del sanitario prescinde dall’inquadramento della responsabilità nell’alveo aquiliano o in quello contrattuale.

Inoltre, come già chiarito, non è da escludere che “anche nell’ambito di un’eventuale ricostruzione della responsabilità in chiave aquiliana si giunga, alla luce del principio di vicinanza della prova e al meccanismo res ipsa loquitur, a delineare un assetto probatorio diverso rispetto a quello che vorrebbe sempre e comunque il paziente gravato della prova della colpa del medico”[5].

Le Sezioni Unite del 2008 pongono a carico dell’attore l’onere di allegare un “inadempimento qualificato” del convenuto: i giudici di legittimità, pertanto, ritengono sufficiente che l’attore affermi la colpa del sanitario e la sussistenza del nesso causale, ma non forniscono indicazioni utili su quale debba essere il grado di determinatezza e specificità di tale allegazione. Quest’ultimo aspetto è, però, di centrale importanza: come noto, l’onere di allegazione assolve alla funzione di delimitare la domanda attorea, e, quindi, l’oggetto stesso del processo.

Dall’ampiezza o meno delle allegazioni dell’attore dipende, inoltre, l’estensione dell’onere di contestazione del convenuto e la possibilità di quest’ultimo di svolgere pienamente il suo diritto di difesa.

Con riferimento all’allegazione della colpa del sanitario, si era già espressa la Corte di cassazione nel 2004, ritenendo sufficiente un’allegazione generica, che contesti “l’aspetto colposo dell’attività medica secondo quelle che si ritengono essere in un dato momento storico, le cognizioni di un professionista che, espletando, peraltro, la professione di avvocato, conosca l’attuale stato dei profili di responsabilità del sanitario”.

Come autorevolmente sottolineato[6], un’allegazione così generica rischia di essere ostativa a una buona difesa da parte del convenuto, il quale, in presenza di un atto di citazione eccessivamente indeterminato, si troverebbe nell’impossibilità di opporre le dovute eccezioni. Né tale assottigliamento dell’onere di allegazione sembra rispondere a esigenze di equità, avendo come effetto quello di rendere le regole sul giudizio di responsabilità più severe quando convenuto sia un medico piuttosto che un altro professionista. Il rischio è, poi, quello di una mutatio libelli nel processo: infatti, in assenza di precise indicazioni da parte dell’attore sui singoli aspetti di colpevolezza della condotta medica, il c.t.u. potrebbe “allargare” all’infinito l’indagine, arrivando comunque alla conclusione che il medico o la struttura hanno sbagliato, ma per motivi del tutto diversi rispetto a quelli “forse immaginabili” e su cui, in assenza di una precisa indicazione dell’attore, il convenuto ha preso posizione nella comparsa di risposta. Le preoccupazioni della dottrina sono state recepite anche da una parte della giurisprudenza di merito, che in diverse occasioni ha rigettato le domande attrici perché eccessivamente generiche. In questo senso peculiare è la sentenza del Tribunale di Frosinone del marzo 2011, che ha respinto il ricorso, sul presupposto che gli attori non avevano assolto al proprio onere di allegazione, non avendo individuato una condotta alternativa lecita che, se tenuta, avrebbe avuto serie possibilità di scongiurare l’evento dannoso. In termini analoghi, il Tribunale di Santa Capua Vetere del 24 febbraio 2012 ha considerato non assolto l’onere di allegazione da parte dell’attore, poiché quest’ultimo non aveva indicato, né nell’atto di citazione né nella perizia allegata, “il comportamento specifico che i sanitari avrebbero posto in essere in violazione delle regole di diligenza, prudenza e perizia”. Le medesime esigenze sono sottese ad una recente pronuncia del Tribunale di Perugia e negli stessi termini si è espresso il Tribunale di Arezzo.

Altro tema cruciale è il contenuto dell’allegazione del nesso causale.

Diverse le strade proposte dalla giurisprudenza per assolvere a tale onere: il nesso causale può essere allegato attraverso la descrizione di una condotta alternativa lecita che, se tenuta, avrebbe avuto apprezzabili possibilità (50% più 1) di scongiurare l’evento dannoso, o tramite la dimostrazione della compatibilità delle lesioni con la condotta attribuita ai sanitari, l’entità e la tipologia delle conseguenze prodotte dall’evento. Si considera, altresì, significativo il collegamento temporale tra evento dannoso e prestazione sanitaria, nonché il raffronto tra le condizioni di salute del paziente al suo ingresso in ospedale ed i pregiudizi lamentati successivamente.

È pur vero, però, che tali indici implicano già un’attività di prova da parte dell’attore, con la conseguenza che la distinzione tra onere di allegazione e onere della prova tende di fatto ad attenuarsi.

In effetti, anche dopo la sentenza delle Sezioni Unite, non sono mancate pronunce - sia di legittimità sia di merito - che si sono discostate dal decisum di Cass. n. 577/2008 e hanno attribuito al paziente l’onere di provare il nesso causale tra condotta ed evento dannoso. In questo senso significativa è la sentenza n. 2847/2010 della S.C. che, seppur in un ambito peculiare come quello in materia di consenso informato, ha attribuito al paziente l’onere di provare il nesso causale tra omessa informazione e non esecuzione dell’intervento chirurgico.

In realtà, la soluzione delle Sezioni Unite è in controtendenza rispetto al panorama europeo, in cui, salvi casi particolari, la giurisprudenza ritiene che il paziente sia tenuto alla dimostrazione e non solo all’allegazione del nesso di causalità[7]. D’altronde, l’orientamento difforme al decisum delle Sezioni Unite del 2008 trova ulteriori conferme nella giurisprudenza relativa ad altri ambiti della responsabilità professionale - come, per esempio, quella dell’avvocato - dove viene attribuita al cliente l’onere di provare il nesso causale tra inadempimento e danno. Il tema del contenuto dell’allegazione attorea è, quindi, in divenire. Peraltro, sotto questo profilo non sembra che tale questione abbia suscitato l’interesse del legislatore, il quale ad oggi ha fornito indirettamente alcune indicazioni sulla natura della responsabilità dei soggetti coinvolti e sulla prova liberatoria del sanitario attraverso la valorizzazione delle c.d. linee guida, ma nulla ha detto sulla posizione sostanziale e processuale dell’attore.

Le Sezioni Unite nel 2008, nell’individuare la prova liberatoria in capo al medico o all’ente sanitario, si limitano ad affermare che al debitore spetta semplicemente “fornire la prova che tale inadempimento non vi è stato (...) oppure che, pur esistendo l’inadempimento, esso non era eziologicamente rilevante nell’azione risarcitoria proposta”. I giudici di legittimità non chiariscono, però, se il professionista debba essere tenuto al risarcimento dei danni anche nell’ipotesi in cui rimanga sconosciuto il singolo fattore che ha determinato il peggioramento delle condizioni di salute del paziente.

A questo riguardo, la giurisprudenza successiva (è questa la quinta e ultima stagione di cui si diceva all’inizio di questo paragrafo) non è univoca: dall’analisi delle sentenze di merito e di legittimità emerge un quadro non lineare e la tendenza, soprattutto da parte della S.C., a preferire formule vaghe, che evitano di prendere posizione sul contenuto della prestazione, determinando non poche difficoltà nel processo di individuazione degli oneri probatori tra le parti. In primo luogo, si registrano pronunce speculari alle Sezioni Unite, le quali - facendo coincidere la prova liberatoria con la dimostrazione dell’assenza di nesso causale tra condotta ed evento dannoso - finiscono, di fatto, per attribuire al medico o alla struttura sanitaria il rischio della causa impeditiva ignota: ogniqualvolta non riescano a dimostrare una sequenza causale alternativa, i convenuti vengono, infatti, condannati al risarcimento dei danni.

Non mancano, inoltre, pronunce - sia di merito che di legittimità - che impongono al convenuto di provare che l’esito infausto è stato determinato da un evento imprevisto e imprevedibile, per poi attenuare tale prova rigorosa, ritenendo sufficiente la dimostrazione di aver tenuto un comportamento diligente. Allo stesso modo, si riscontrano sentenze che sembrano aderire ad una concezione soggettiva della responsabilità e utilizzano i criteri di cui all’art. 1176 c.c. per verificare l’imprevedibilità che ha reso impossibile l’esecuzione della prestazione. In altri casi ancora la giurisprudenza sembra, invece, tenere in considerazione la peculiarità dell’obbligazione del sanitario e della struttura, ritenendo sufficiente la dimostrazione di aver osservato le leges artis previste per l’esecuzione di una prestazione professionale. In questo contesto, la giurisprudenza di merito si è fatta portatrice, in qualche occasione, dell’esigenza di individuare regole certe o maggiormente rigorose sul punto. Per esempio, appare opportuno segnalare una sentenza del Tribunale di Milano dell’aprile 2008, che ha tentato di specificare con maggior dettaglio il contenuto della prova liberatoria in capo alla struttura e al sanitario. A tale proposito il giudice meneghino, dopo aver richiamato la dottrina francese e italiana in materia di obbligazioni di mezzi e risultato, sottolinea la peculiarità della prestazione medica, traendone le dovute conseguente in punto di prova liberatoria. Il Tribunale distingue, infatti, la prova dell’adempimento da quella sull’impossibilità sopravvenuta. Si ritiene che la prima sia raggiunta ogni qualvolta si dimostri di “aver rispettato tutte le norme di prudenza, diligenza, perizia, i protocolli, le linee guida più accreditate nel proprio settore di competenza” e che la seconda debba essere fornita soltanto nell’ipotesi in cui non sia stato possibile dimostrare di aver esattamente eseguito l’obbligazione assunta. Il Tribunale di Milano sembra, altresì, aderire a quell’orientamento dottrinale che fa leva sulla rilevanza in generale delle presunzioni semplici per evitare al debitore di subire il rischio della causa impeditiva ignota. L’intento del giudice meneghino di considerare le peculiarità dell’obbligazione sanitaria è sicuramente apprezzabile.

È pur vero, però, che, sebbene ribadita anche recentemente da un’altra pronuncia di merito, la tesi del Tribunale di Milano rimane tendenzialmente inascoltata. La giurisprudenza, soprattutto quella di legittimità, sembra (rectius, sembrava) non voler prendere una posizione esplicita sul rischio delle cause impeditive ignote.

In questo contesto e in assenza di una precisa presa di posizione della giurisprudenza sulla prova liberatoria dell’ente e del sanitario (e quindi sul concetto di esatto adempimento in questo particolare settore), un aiuto sembra poter provenire dalla legge Balduzzi e ancora più recentemente dalla legge n. 24/2017 (c.d. legge Gelli).

Come già chiarito, l’art. 3 della L. n. 189/2012 (legge Balduzzi) ha, infatti, esplicitamente sancito la rilevanza della condotta medica conforme a “linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica” al fine di escludere la responsabilità penale “per colpa lieve”. Inoltre, tale legge - dopo aver precisato che, anche nel caso di insussistenza di responsabilità penale in virtù della previsione sopra citata, “resta fermo l’obbligo di cui all’art. 2043 c.c. del codice civile” – ha richiamato le linee guida come parametro della “determinazione del risarcimento del danno” – stabilendo che a tal fine il giudice “tiene debitamente conto della condotta di cui al primo periodo”, ossia della condotta conforme alle linee guida e alle buone pratiche sopra richiamate.

In continuità con l’art. 3 della legge Balduzzi si è indirizzata la recente legge Gelli, poiché l’art. 7 comma 3 impone al giudice di tener conto del rispetto delle linee guida nella determinazione del risarcimento del danno.

L’esplicito riconoscimento delle linee guida sotto il profilo risarcitorio (e, quindi, civilistico) richiama l’attenzione dell’interprete sulle conseguenze che la loro osservanza potrebbe avere anche sul piano dell’onere e del contenuto della prova: si è, infatti, affermato che, laddove il medico provi di essersi attenuto alle suddette linee, spetterebbe al paziente provare specifici elementi di colpa. In altri termini, si tratta di verificare se il rispetto delle linee guida possa costituire prova dell’esatto adempimento dell’obbligazione del sanitario e, quindi, anche della struttura sanitaria che sia chiamata a rispondere dell’operato dei propri collaboratori.

Un interrogativo che si affaccia alla mente è se il mancato rispetto delle “raccomandazioni” (per come elaborate e pubblicate ai sensi di Legge), possa costituire, ex se, argomento per far scattare una presunzione di colpa (o viceversa).

La risposta parrebbe essere negativa, sia perché il dato testuale non autorizza una simile conclusione (che sarebbe comunque sicuramente vietata in ambito penalistico, ex art. 27, comma 2 Cost.), sia perché la peculiarità del singolo caso sono tali da rendere ogni fattispecie “un’sola a sé”, sia perché infine le linee guida non sono regole univoche e tassative, ma “direttive” che lasciano spesso all’operatore margini di discrezionalità, rendendo assai variegato il panorama delle possibili opzioni.

A ciò si aggiunga, poi, che stando alla lettura dell’art. 5, il profilo che verrebbe in linea di conto dovrebbe essere solo quello della perizia (restando dunque del tutto impregiudicate le valutazioni sulla negligenza o imprudenza).

Non pare quindi che si possa predicare, in termini automatici, un assioma del tipo “inosservanza delle linee guida = presunzione di colpa”.

Cerchiamo ora di immaginare alcuni scenari. Nell’ambito dei rapporti riconducibili alla disciplina dell’art. 1218 c.c. il malato dovrebbe limitarsi ad allegare l’inadempimento qualificato (oltre che a provare il contratto ed il danno). L’ospedale (o il libero professionista) convenuto avrebbe probabilmente interesse a dimostrare di aver applicato le linee guida (se e nei limiti in cui ciò possa tradursi in esclusione o attenuazione di responsabilità).

A questo punto, ci si potrebbe chiedere se la “palla” torni nelle mani del paziente, se cioè questi sia gravato dell’onere di dare evidenza di quelle “specificità” che, nella fattispecie, imponevano di discostarsi dalle suddette “raccomandazioni”. Ma se così fosse, è facile l’obiezione: tale conclusione si porrebbe probabilmente in contrasto con il principio di vicinanza della prova (trattandosi di circostanze che rientrano nel bagaglio di conoscenze proprio del debitore e che comunque ricadono nella sua sfera di cognizione ed azione).

Laddove invece il medico non abbia applicato le linee guida, a fronte della allegazione del paziente (circa la necessità di osservarle, e la riconducibilità dell’evento lesivo alla loro mancata attuazione), dovrebbe verosimilmente spettare al sanitario dimostrare che le peculiarità della fattispecie imponevano un approccio diverso.

E’ probabile che tali dubbi finiscano per essere risolti dalla giurisprudenza attraverso la formulazione di un apposito quesito al CTU (chiamato appunto a verificare tutti questi profili).        

 

  1. GLI ULTIMI ARRESTI DELLA CORTE SUPREMA IN MATERIA DI NESSO DI CAUSALITA’

 

L’evoluzione giurisprudenziale anche e soprattutto della S.C. rappresenta un dato importante da scrutinare costantemente nel suo progredire anche con pronunzie che si discostano dall’arresto delle SS.UU. del 2008 di cui in apice.

Il tema della individuazione della parte processuale su cui grava l’onere di provare la sussistenza del nesso di causa è ancora al centro dell’animato dibattito che da tempo impegna giurisprudenza e dottrina e che non risulta sopito dopo la nota pronunzia di Cass. civ. Sez. Un. 577/2008.

Una serie di recenti ordinanze della Suprema Corte ha nuovamente (o meglio, ha continuato) a porre sotto la lente di ingrandimento la questione in parola[8]

Il fil rouge che lega tali pronunzie riguarda l’esclusione della responsabilità contrattuale in conseguenza dell’oggettiva incertezza sulla causalità materiale, sul presupposto che ilrequisito causale esiga un autonomo accertamento, ulteriore rispetto a quello relativo all’inadempimento, sicché ‘‘la sussistenza della prima non comporta – di per sè – la

dimostrazione del secondo e viceversa’’[9]. Più nel particolare, la Suprema Corte (contraddicendo i principi enunciati da Cass. civ. Sez. Un. 577/2008 e come vedremo di qui a poco, riallacciandosi a Cass. 26 luglio 2017 n. 18392) ha ritenuto insufficiente ai fini dell’accertamento della responsabilità l’allegazione da parte del creditore che la condotta commissiva od omissiva del debitore, anche soltanto nella forma del ritardo diagnostico, costituisca un inadempimento potenzialmente idoneo a incidere sulla successiva evoluzione della malattia e ciò in quanto ‘‘l’avverbio ‘potenzialmente’ non è affatto idoneo ad indicare una effettiva e concreta relazione condizionante – in termini di preponderanza dell’evidenza (‘più probabile che non’) – fra il ritardo diagnostico e il successivo decorso della malattia’’[10].  

Il nesso di causalità materiale rappresenta una delle questioni più controverse del diritto della responsabilità civile e sottopone l’interprete a una delle prove più dure.

In primo luogo, perché il diritto non ha sviluppato un’autonoma spiegazione dei rapporti di derivazione tra eventi e, dunque, diviene necessario attingere alle metodiche elaborate da “saperi” diversi che hanno invece creato apposite regole di causalità. Questa esigenza pone l’arduo problema delle forme e dei limiti della rielaborazione interna da parte del diritto del sapere reperito all’esterno: un problema che ricorre ogni qualvolta si assiste ad analoghi fenomeni di ricezione di conoscenze attinte al di fuori del sistema giuridico[11].

Le recenti ordinanze della S.C. sembrano imprimere una decisa svolta all’indirizzo tracciato da Cass. Sez. Un. 577/2008, ma mai pienamente condiviso dalle Sezioni semplici.

Anzi, Cass., 26 luglio 2017, n. 18392, fornisce una nuova chiave di lettura dei concetti enunciati dalle Sezioni Unite con la sentenza 577/2008.

Il punto di partenza del percorso argomentativo di Cass. 18392/2017 consiste nel sostenere l’identità della dislocazione della prova del nesso di causalità materiale in entrambe le specie della responsabilità civile: contrattuale ed extracontrattuale. La Corte sostiene che la

‘‘causalita` relativa all’evento ed al danno consequenziale è comune ad ogni fattispecie di responsabilità, contrattuale ed extracontrattuale, e caratterizza negli stessi termini, sia in ambito contrattuale cheextracontrattuale, gli oneri di allegazione e di prova del danneggiato. Il danno è elemento costitutivo della fattispecie dedotta in giudizio ed essendo l’eziologia immanente alla nozione di danno anche l’eziologia è parte del fatto costitutivo dedotto che l’attore deve provare’’

Da ciò, sempre secondo Cass. 18392/2017, deriva che vanno distinti due ‘‘cicli causali’’: uno relativo alla derivazione dell’evento dannoso dalla condotta inadempiente del medico (causalità costitutiva) e uno – logicamente e giuridicamente subordinato alla dimostrazione dell’esistenza del primo – relativo invece all’impossibilita` della prestazione (causalità estintiva). La prova del primo è onere del creditore, mentre la prova del secondo grava sul debitore.

Secondo Cass. 18392/2017, le Sezioni Unite del 2008 si sarebbero riferite soltanto alla causalità estintiva: ‘‘la causa che viene qui in rilievo non è quella della fattispecie costitutiva della responsabilità risarcitoria dedotta dal danneggiato, ma quella della fattispecie estintiva dell’obbligazione opposta dal danneggiante. Il riferimento nella giurisprudenza in discorso all’insorgenza (o aggravamento) della patologia come non dipendente da fatto imputabile al sanitario, ma ascrivibile ad evento imprevedibile e non superabile con l’adeguata diligenza, e pertanto con onere probatorio a carico del danneggiante (Cass., 20 ottobre 2014, n. 22222), evidenzia come in questione sia la fattispecie di cui agli artt. 1218 e 1256 c.c. Si deve a questo proposito distinguere fra la causalità relativa all’evento (causalità materiale) ed al consequenziale danno (causalità giuridica) e quella concernente la possibilità (rectius impossibilità) della prestazione’’.

Sulla base di questa rilettura della posizione delle Sezioni Unite e della proposta costruttiva della doppia rilevanza della causalità, l’orientamento più recente propone che il nodo della causa ignota venga sciolto addossandone il rischio al creditore, nel caso in cui essa riguardi la derivazione causale dell’evento dannoso, e al debitore, ove essa, invece, attenga all’impossibilità della prestazione.

Le ordinanze segnalate alla nota 8 si collocano tutte nella scia di Cass. 18392/2017.

Molto di recente invero la Corte di Cassazione con la ordinanza n. 5487 del 26 febbraio 2019 ha ribadito che nei giudizi risarcitori da responsabilità medica si delinea un “duplice ciclo causale”, uno relativo all’evento dannoso denunciato dal paziente, a monte, l’altro relativo all’impossibilità di adempiere che il sanitario può muovere a sua difesa, a valle.

La Cassazione, sul punto, ha confermato che il primo, quello relativo all’evento dannoso, deve essere provato dal creditore - paziente danneggiato, mentre il secondo, relativo alla possibilità di adempiere, deve essere provato dal debitore - medico danneggiante.

Mentre il creditore deve provare il nesso di causalità tra l'insorgenza (o l'aggravamento) della patologia e la condotta del sanitario (fatto costitutivo del diritto), il debitore, da parte sua, deve provare l’esistenza di una causa imprevedibile ed inevitabile che ha reso impossibile la prestazione (fatto estintivo del diritto).

La Corte, con la sentenza 18392/2017, ha ripreso un precedente orientamento sedimentatosi con le pronunzie di Cass. 26 luglio 2017 n. 18392, Cass. 4 novembre 2017, n. 26824; Cass. 7 dicembre 2017, n. 29315; Cass. 15 febbraio 2018, n. 3704; Cass. 23 ottobre 2018, n. 26700; ecco dunque, di seguito ritrascritta, la massima della Corte di legittimità del 2019 n. 5487 : “ nei giudizi risarcitori da responsabilità sanitaria, si delinea un duplice ciclo causale, l'uno relativo all'evento dannoso, a monte, l'altro relativo all'impossibilità di adempiere, a valle…mentre il creditore deve provare il nesso di causalità fra l'insorgenza (o l'aggravamento) della patologia e la condotta del sanitario (fatto costitutivo del diritto), il debitore deve provare che una causa imprevedibile ed inevitabile ha reso impossibile la prestazione (fatto estintivo del diritto)".

Tale ripartizione dell'onere della prova determina anche quale è il soggetto che si fa carico della causa incognita; questa pertanto resta a carico dell'attore relativamente all'evento dannoso, mentre resta a carico del convenuto relativamente alla possibilitàdi adempiere; se al termine dell'istruttoria, resti incerta la causa del danno o dell'impossibilità di adempiere, le conseguenze sfavorevoli in termini di onere della prova gravano rispettivamente sull'attore o sul convenuto.

Nei giudizi per malpractice sanitaria l’incertezza sulla sussistenza del nesso causale tra evento dannoso non grava dunque solo sul presunto danneggiante, ma anche sul paziente.

Il ciclo causale relativo alla possibilità di adempiere acquista rilievo solo ove risulti dimostrato il nesso causale fra evento dannoso e condotta del debitore. Solo una volta che il danneggiato abbia dimostrato che l'aggravamento della situazione patologica (o l'insorgenza di nuove patologie per effetto dell'intervento)  è causalmente riconducibile alla condotta dei sanitari sorge per la struttura sanitaria l'onere di provare che l'inadempimento, fonte del pregiudizio lamentato dall'attore, è stato determinato da causa non imputabile Un ciclo causale che si attiva dunque solo in subordine al primo.

Nel caso di specie sottoposto all’attenzione della Suprema Corte un uomo era deceduto a seguito di ischemia poco dopo la visita effettuata da una Guardia Medica che lo aveva rinviato al domicilio “previa somministrazione in via intramuscolare di un antidolorifico, con prescrizione di un controllo dal medico curante.

Per tale motivo gli eredi convenivano in giudizio la AULSS competente affinché venisse riconosciuta come responsabile del decesso e affinché venisse accolta la propria domanda risarcitoria.

Presentato atto di querela contro ignoti, il susseguente procedimento penale sfociava in un provvedimento di archiviazione che recepiva le conclusioni della consulenza tecnica  disposta dalla Procura secondo cui l’invio dell’uomo presso il Pronto Soccorso dell’Ospedale avrebbe “quantomeno permesso di defibrillare il paziente e quindi di consentire maggiori probabilità di sopravvivenza ma la grandezza statistica di tale probabilità, da un punto di vista penalistico, non assurgeva ai richiesti parametri della ragionevole certezza dell’esito salvifico potendo trovare ampia dignità in responsabilità civile, a fronte dell’assunto giuridico del cosiddetto più probabile che non”.

Accolta dal Giudice civile di primo grado la domanda risarcitoria, la Corte di Appello escludeva la responsabilità dell’azienda sanitaria sostenendo che il Tribunale aveva attribuito rilevanza causale “al fatto della mancata presenza del paziente presso il PS al momento dell’episodio, presumibilmente ischemico, che lo condusse al decesso e, quindi, al fatto del mancato utilizzo tempestivo del defibrillatore.” L’omissione imputata ai sanitari del Presidio di Guardia Medica, quindi, “non si è inserita nella serie causale che ha condotto all’evento di danno, ma si configura come una sorta di occasione mancata, riferita al luogo di soccorso in collegamento con il mancato utilizzo del defibrillatore, ovvero una circostanza priva di efficacia causale o concausale.

La Corte ha poi sottolineato come non vi sarebbe riscontro probatorio circa la presenza di personale di pronto soccorso pronto ad intervenire immediatamente con il defibrillatore e soprattutto come non fosse dato sapere se il suo utilizzo “sarebbe stato salvifico” e ciò anche in ragione del fatto che il decesso è stato quanto mai improvviso e repentino.

Sulla base di tali premesse la Corte di Appello ha rigettato la domanda risarcitoria, rilevando che né il Tribunale né il consulente del Pubblico Ministero avevano spiegato “in base a quali regole o dati scientifici si poteva sostenere che le possibilità di sopravvivenza del paziente certamente sussistevano”.

Avverso tale decisione veniva proposto ricorso per Cassazione deducendo la violazione o falsa applicazione di norme di diritto in relazione agli art. 1218, 1176 co 2 e 2697 c.c. oltre che del principio della cd. vicinanza della prova.

La Cassazione ha censurato la sentenza impugnata perché non si sarebbe curata di accertare se la diligenza dei sanitari della Guardia Medica fosse stata provata (come era suo onere) dall’accusata, “realizzando una prima violazione del principio della vicinanza della prova, e ciò, oltretutto, avendo parte attrice evidenziato quali fossero i profili di negligenza imputati a essi”.

Mentre la parte attrice, dopo aver provato il ‘contatto sociale’ tra il paziente e la struttura, avrebbe anche evidenziato che la prescrizione - da parte di uno dei sanitari che ebbero in cura il paziente - di accertamenti più approfonditi, al fine di scongiurare la presenza di una patologia cardiaca, avrebbe evitato la morte del paziente per attacco ischemico, la convenuta non ha fornito la prova che all'esito della loro esecuzione ‘nulla sarebbe stato riscontrato sotto il profilo cardiologico’”.

Per gli Ermellini il fatto che la Corte d’Appello abbia ignorato questa circostanza integrerebbe "una violazione dei principi vigenti in materia di onere della prova del nesso causale”.

Ed è errata anche perché afferma - in assenza di riscontri - che i sanitari si sarebbero addirittura comportati con diligenza, perché senza le risultanze degli esami omessi "non può in alcun modo essere provato che i sintomi di un'ischemia non vi fossero", “sicché la sentenza impugnata avrebbe violato pure sotto questo profilo gli artt. 1176, comma 2, e 2697 cod. civ”. 

In conclusione, poiché la morte del paziente fu causata da un problema cardiaco e poiché gli odierni ricorrenti ‘hanno sempre sostenuto che l'esecuzione degli esami omessi avrebbe consentito una diagnosi tempestiva e permesso di monitorare la situazione, evitando la morte per ischemia’, sarebbe spettato alla convenuta ‘provare che la morte sarebbe egualmente avvenuta oppure che la sua causa andava rinvenuta in altro evento imprevisto e/o imprevedibile’. E ciò, a maggior ragione, a fronte delle risultanze di una consulenza espletata secondo cui gli accertamenti diagnostici omessi e l'utilizzo del defibrillatore il giorno della morte avrebbero consentito la sopravvivenza del paziente, secondo la regola ‘del più probabile che non’".

Di qui dunque una violazione anche del principio della vicinanza della prova, che se correttamente applicato, imponeva alla convenuta a fronte della risultanza della perizia medico legale di fornire elementi necessari per ritenere che la causa della morte del paziente andasse ricercata in un evento impossibile da prevedere.

Secondo la Cassazione quindi la Corte di Appello, di fronte a simili risultanze non ha fatto “corretta applicazione delle norme in tema di accertamento del nesso causale tra condotta ed evento ma ha operato un'indebita ‘parcellizzazione’ dei singoli episodi in cui si articolava l'unitario contegno omissivo addebitato alla struttura sanitaria,disattendo, per giunta, le risultanze di una consulenza che offriva elementi idonei a riscontrare positivamente l'ipotesi della sussistenza del nesso causale, senza fare neppure ricorso ad un'ulteriore indagine tecnica che potesse affiancare, integrandola, la prima”.

Sarebbe stato necessario non ricostruire la vicenda in chiave atomistica, evitando così un’indebita parcellizzazione dei singoli episodi in cui si articolava l’unitario contegno omissivo.

Nei giudizi di responsabilità bisogna valutare le vicende per intero evitando segmentazioni che potrebbero condurre a risultati fuorvianti.

La sentenza impugnata ha operato un’indebita "segmentazione" della complessiva condotta omissiva della struttura sanitaria, incentrando la propria valutazione esclusivamente sull'ultimo anello della catena di omissioni “che andavano invece tutte adeguatamente indagate”.

Una ricostruzione non "atomistica" dell'intera vicenda avrebbe evidenziato, invero, che la tempestiva sottoposizione dell’uomo ad accertamenti più approfonditi - già nella fase iniziale, o comunque in quella intermedia, dell'intera catena di accadimenti - avrebbe potuto scongiurarne il decesso.

Stando a voci provenienti da ambienti giudiziari vicini alla S.C., la questione dell’onere della prova del nesso di causalità dovrebbe nuovamente essere affrontata dalla Sezioni Unite entro il mese di settembre del corrente anno 2019.   

     


 

 

 

 

 

 

                                                                                                                                              

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

  1.   COMMENTO ART. QUATTRO:   ACCESSO AI DOCUMENTI SANITARI PROCEDURA.                                    TEMPI, MODALITA’ E REGOLAMENTI INTERNI.                                                                            OGGETTO DELL’ACCESSO: LA DOCUMENTAZIONE SANITARIA             (a cura dell’Avv.  Maria Giugliano).

Si ritiene che l’accesso previsto dall’articolo in commento possa avere ad oggetto tutta la documentazione sanitaria avente valore probatorio ai fini dell’accertamento della responsabilità civile e penale degli esercenti le professioni sanitarie in strutture pubbliche e private.Vi rientra indubbiamente la cartella clinica, che costituisce l’insieme di documenti che registrano il complesso di informazioni cliniche ed anagrafiche relative al paziente. Essa ha, da un lato, lo scopo di rilevare il percorso diagnostico-terapeutico del paziente, e dall’altro quello di fornire evidenza documentale, anche al fine della valutazione dell’assistenza sanitaria, oltre che della tutela degli interessi legali del paziente, della struttura, degli operatori sanitari.

La cartella clinica include referti, verbale chirurgico, scheda infermieristica, certificato di assistenza al parto, relazione di dimissione e scheda di dimissione ospedaliera. Nella documentazione sanitaria rientreranno sia le cartelle cliniche cartacee, sia quelle digitali.

Il secondo comma dell’art. 4 prevede che la direzione sanitaria, entro sette giorni dalla presentazione della richiesta da parte dell’avente diritto, fornisca la documentazione sanitaria disponibile relativa al paziente, preferibilmente in formato elettronico. Qualora siano necessarie  ulteriori integrazioni, queste dovranno essere fornite entro un termine massimo di trenta giorni dalla presentazione della richiesta.   

Ai sensi del secondo comma dell’art. 4 l’acceso alla documentazione sanitaria può essere richiesto dagli “interessati aventi diritto”.   

Si possono distinguere gli aventi diritto alla documentazione sanitaria in tre gruppi: i soggetti interessati, i soggetti che agiscono per conto o con delega di questi ultimi ed i terzi.

Per quanto riguarda i primi non vi è dubbio che l’accesso alla documentazione sanitaria possa essere esercitato dai pazienti cui la documentazione si riferisce, ovvero dagli interessati come definiti dal Codice della Privacy. A tal fine occorrerà che l’identità dell’interessato sia verificata sulla base di idonei elementi di valutazione, allegando copia di un documento di riconoscimento (art. 9, comma 4 del Codice della Privacy).   

Per quanto riguarda i soggetti che possono esercitare il diritto di accesso alla documentazione sanitaria per conto o per delega degli interessati si ritiene che possono essere agevolmente identificati interpretando l’art. 4 della L. 24/2017 alla luce della disciplina privacy e del libro primo del codice civile.

Potranno dunque accedere i seguenti soggetti: soggetti muniti di delega o procura, genitori ed esercenti la potestà genitoriale, tutore e curatore, amministratore di sostegno, INPS con delega dell’assistito nel caso competano a questa le spese di spedalità per i pazienti dipendenti da azienda private, nell’ipotesi di assistenza prestata da lavoratrici madri, INAIL, in caso di infortunio o malattia professionale occorso ad un assicurato, con delega dell’assistito.

Per i pazienti deceduti ai sensi dell’art. 536 c.c. potranno accedervi i legittimi eredi testamentari o legittimari.

Con riguardo all’accesso della documentazione sanitaria da parte di terzi esso subisce notevoli limitazioni dalla disciplina privacy.

L’accesso potrà essere consentito solo se e nella misura in cui esso sia necessario a far valere un diritto che, a seguito di una valutazione di bilanciamento, possa essere ritenuto, nel caso di specie, prevalente rispetto al diritto alla riservatezza dell’interessato. 

Così potranno accedere alla documentazione del paziente: il medico di base che ha in cura il paziente, munito di consenso scritto dell’interessato, e gli esercenti le professioni sanitarie stessi, che potranno accedere alla documentazione sanitaria, qualora sia necessario per “far valere o difendere un diritto in sede giudiziaria di rango pari a quello dell’interessato “ (art. 92 comma 2 lett. a; ovviamente la documentazione potrà essere fornita ad organi giudiziari, P.M. G.I.P. Nuclei di polizia giudiziaria su relativa formale richiesta), periti di ufficio, previa esibizione del mandato conferito loro dal difensore legale che esibisca procura scritta.

La giurisprudenza amministrativa in tema di accesso alla cartella clinica ha chiarito che: “ ciò che il giudice deve accertare è se gli istanti abbiano maturato “iure proprio” il diritto all’accesso ai dati contenuti nella cartella clinica, in conformità a quanto sancito dall’art. 9 comma 3, del Codice della privacy, ovvero se siano titolari di una situazione giuridicamente rilevante che li legittima a pretendere l’esibizione di atti potenzialmente capaci di giovare alla salvaguardia dei propri interessi (nella fattispecie della propria aspirazione ad una porzione di patrimonio del defunto, dalla successione del quale erano stati a loro avviso ingiustamente estromessi  specie  “ (cfr. TAR Lombardia Brescia,  16,12,2011, n. 1761).   

Resta il tema del “tempo della conservazione della Cartella”, e della interpretazione, in primis, della Circolare Ministero della Salute del 19.12.1998, n. 61 (e del D.M. 14.2.1997) che dovrebbero poter argomentare un obbligo di conservazione illimitata della Cartella Clinica e ciò in contrapposizione al limite di venti anni determinato dalla circolare per la documentazione diagnostica e di dieci anni per le immagini radiologiche ; ma il tema dovrebbe poter esser superato dalla l. n. 35 del 2012 n. 4 che all’art. 47 bis  “semplificazione in materia di sanita digitale “ prevede che a decorrere dal 1 gennaio 2013 dispone che la conservazione delle cartelle cliniche può essere effettuata anche e solo in forma digitale.

Il comma 3 dell’art. quattro ora in commento, prevede che sia le strutture pubbliche che quelle private hanno il dovere di rendere disponibili, mediante pubblicazione sul proprio sito internet, i dati relativi a tutti i risarcimenti erogati nell’ultimo quinquennio; la disposizione in parola si “incrocia” con la legge 28.12.105, n. 208 art. 1 comma 539, per cui ciascuna struttura sanitaria predispone una relazione annuale consuntiva sugli eventi avversi verificatisi all’interno della struttura, sulle cause che hanno prodotto l’evento avverso e sulle conseguenti iniziative messe in atto, relazione che deve essere pubblicata sul sito internet della struttura sanitaria.

Si tratta di una disposizione legislativa che almeno in teoria, potrebbe tornare molto utile per la comprensione di problematiche generali per esempio il ripetersi di infezioni nosocomiali in un determinato reparto.  

Il dato rilevante è che non è contemplata alcuna sanzione per la struttura inadempiente a tali doveri.

Le disposizioni ora in commento, se da un lato parrebbero aprire “al mondo esterno” gli interna corporis delle vicende aziendali, dall’altro però, necessariamente devono essere lette in combinazione con quanto previsto dal comma 1 dell’art. 16 della legge Gelli, la quale però esclude che i verbali e gli atti conseguenti all’attività di gestione del rischio clinico, cioè quei documenti rilevantissimi per la comprensione delle misure precauzionali contemplate e poste in essere – possano essere acquisiti o utilizzati, nell’ambito dei procedimenti giudiziari, con la conseguenza che così viene impedito ai danneggiati e dalla magistratura di accertare e verificare la sussistenza o meno delle misure precauzionali contemplate ed attuate dalle strutture. La disposizione in parola pare riformare l’art. 1 comma 539 lett. a) della legge 28.12.2015, n. 208 che prevedeva l’utilizzo di tali documenti nei processi penali alla stregua di mezzi di prova alla condizione del rispetto delle modalità e garanzie stabilite dal codice di procedura penale, impendendosi in tal modo lo scrutinio delle attività svolte per la prevenzione e gestione dei rischi sanitari.            

La partecipazione dei familiari al riscontro diagnostico.  Degnadi segnalazione è il comma 4 dell’art. quattro in commento, che ha integrato il regolamento di polizia mortuaria di cui al dpr 10 settembre 1990, n. 285 che all’art. 37 ha inserito il comma 2 bis per cui i familiari e gli altri aventi titolo del deceduto possono “concordare” con il direttore sanitario o sociosanitario l’esecuzione del riscontro diagnostico di cui alla l. 15.2.1961 n. 83, sia nel caso di decesso ospedaliero che in altro luogo, potendo disporre la presenza di un medico di loro fiducia.        

Occorrerà ricordare che ai sensi dell’art. 39 comma 3 del regolamento di polizia mortuaria il medico settore, ogni qual volta ha il sospetto che la morte sia dovuta a reato, deve sospendere le operazioni e darne immediata comunicazione all’autorità giudiziaria.

La Cartella Clinica.  Giuridicamente, la cartella clinica può definirsi come un atto pubblico solo nel caso in cui venga redatta da un pubblico ufficiale, e quindi da un medico operante all'interno di una struttura ospedaliera pubblica o privata purché convenzionata con il Servizio Sanitario Nazionale. Qualora l'operatore intervenga all'interno di una struttura privata, la cartella clinica dovrà considerarsi alla stessa stregua di un qualsiasi documento privato, il quale avrà unicamente la funzione di promemoria di tutte le attività diagnostiche e terapeutiche alle quali si è sottoposto il paziente durante la degenza ospedaliera.

È chiaro, quindi, che nel caso in cui la cartella clinica possa definirsi quale atto pubblico avente fede privilegiata, poiché formata da un pubblico ufficiale od incaricato di un pubblico servizio nell'esercizio delle sue funzioni, farà piena prova fino a querela di falso di tutto ciò che è in essa contenuto.

Data l'importanza che assume la cartella clinica in relazione alla raccolta di tutti i dati riguardanti il paziente (anamnesi, decorso clinico, terapie somministrate) si richiede un certo grado di completezza, chiarezza, contestualità nelle annotazioni e soprattutto veridicità.

Pertanto, al fine di soddisfare le esigenze sopra specificate, è indispensabile che il documento sanitario sia leggibile e comprensibile oltreché completo in ogni sua parte, in modo tale da assolvere alle usuali funzioni informative sia per il medico ospedaliero ed il personale infermieristico, sia per il medico di medicina generale nei confronti del quale la cartella clinica funge da importante veicolo di informazione in ordine agli interventi eseguiti e gli obiettivi raggiunti in relazione al decorso clinico di ogni paziente.

Assume fondamentale importanza la parte della cartella clinica dedicata alla tutela della privacy ed al consenso informato. Per tutto ciò che riguarda il primo aspetto, l'obiettivo è di tutelare e gestire i c.d. dati sensibili del paziente rispettandone la riservatezza, per limitarne l'uso al solo scopo cui è diretta l'attività degli operatori sanitari: diagnostico e terapeutico. Per quanto riguarda invece il c.d. consenso informato, è determinante la sua importanza in ambito sanitario, poichè rende legittimo l'intervento del medico una volta che il paziente sia stato esaustivamente informato in relazione ai rischi e benefici connessi ad una certa prestazione sanitaria. Resta sottinteso che un'eventuale assenza del consenso informato determina il sorgere di una responsabilità professionale e pretesa risarcitoria da parte del paziente nei confronti dell'operatore sanitario stesso.

Dalle predette argomentazioni, si può desumere che il medico non sarà da ritenersi responsabile solo in relazione ad una corretta compilazione della cartella clinica, ma anche in riferimento a tutto ciò che attiene alla sua corretta conservazione ed archiviazione.

 

La responsabilità del medico nella tenuta e conservazione della cartella clinica: smarrimento ed omissioni.

Rappresenta dunque un onere incombente sul professionista sanitario controllare la completezza e l'esattezza delle informazioni contenute nella cartella clinica e nei relativi allegati, in attuazione di quanto previsto dall'art. 1176 c.c. 

Pertanto, qualsiasi negligenza che denota un'inesatta conservazione della cartella clinica o che renda palese l'esistenza di eventuali omissioni e/o lacune nel contenuto della stessa, giustifica la nascita di una responsabilità professionale dell'operatore sanitario, fondata sull'esistenza di un nesso eziologico presente tra la condotta negligente del medico ed il danno che ne è conseguito al paziente. Sul punto la stessa Corte di Cassazione con sentenza  n. 12218 (Cass. civ., sez. III, 12 giugno 2015 n. 12218)  ha affermato che: «l'incompletezza della cartella clinica assurge a circostanza di fatto che il Giudice di merito può utilizzare per ritenere dimostrata l'esistenza di un valido nesso causale tra l'operato del medico ed il danno patito dal paziente essendo però, a tale fine necessario che l'esistenza del nesso di causa tra condotta del medico e danno del paziente, non possa essere accertata proprio a causa dell'incompletezza della cartella, sia che il medico abbia comunque posto in essere una condotta astrattamente idonea a cagionarne il danno».

Tuttavia, la Corte del diritto, nell’ipotesi in cui la cartella clinica è lacunosa, subordina e àncora l’affermazione della responsabilità del sanitario a ulteriori rigorosi e ineludibili presupposti.

Da questa corretta prospettiva, come si vedrà di qui a poco, anche in tempi recentissimi la Corte regolatrice ha affermato a chiare e univoche lettere che «L'incompletezza della cartella clinica è circostanza di fatto che il giudice di merito può utilizzare per ritenere dimostrata l'esistenza d'un valido nesso causale tra l'operato del medico e il danno patito dal paziente. non in modo automatico, però: affinché quella incompletezza rilevi ai fini del decidere, è necessario che:

(a) l'esistenza del nesso di causa tra condotta del medico e danno del paziente NON possa essere accertata proprio a causa della incompletezza della cartella;

(b) il medico abbia comunque posto in essere una condotta astrattamente idonea a causare il danno (così la sentenza capostipite, ovvero Sez. 3, Sentenza n. 12103 del 13/09/2000, Rv. 540146; in seguito, nello stesso senso, Sez. 3, Sentenza n. 10060 del 27/04/2010, Rv. 612606; Sez. 3, Sentenza n. 12273 del 05/07/2004, Rv. 574125).» (così si è espressa Cass. civ. Sez. III, 12/06/2015, n. 12218, par. 2.2).

Nella fattispecie concreta sottoposta alla disamina della S.C., i Giudici di legittimità hanno cura di precisare che «In ogni caso, quale che sia la censura che i ricorrenti avessero inteso formulare col motivo in esame, esso è infondato perché fraintende la giurisprudenza di questa Corte sulla questione delle conseguenze di una difettosa tenuta della cartella clinica» (cfr. pg. 6, par. 2.2 di Cass. 12218/2015, in cui i ricorrenti, con il motivo di censura disatteso dalla Corte di legittimità, sostenevano che bastasse l’incompletezza nella tenuta della cartella clinica).

L’eventuale carenza della cartella clinica, stando alla pronunzie della S.C. sopra ripercorsa, non è di per sé stesso elemento idoneo e sufficiente per affermare la responsabilità del medico.

I concetti espressi dalla sentenza qui richiamata non risultano smentiti dalle successive pronunzie dei Giudici di legittimità, trovando anzi ulteriore avallo nelle ultimissime decisioni di Cass. civ. Sez. II, 26 giugno 2018 n. 18628 e Cass. civ. Sez. III, 21 novembre 2017 n. 27561; in entrambi i casi affrontati dalla S.C., questa ha confermato la sentenza impugnata che aveva negato rilevanza causale all'incompletezza della cartella clinica in quanto la documentazione agli atti, anche prodotta dall'attore, era sufficiente a escludere la responsabilità del medico.

La ratio decidendi delle sentenze qui rammentate è di agevole lettura: la presunzione (relativa) di responsabilità a carico del medico per le carenze della cartella clinica opera nel caso in cui le lacune non consentano di comprendere la vicenda clinica, mentre resta inoperante laddove i fatti possano essere altrimenti ricostruiti. 

È bene precisare che esistono, allo stato, dei limiti in relazione all'esistenza di una responsabilità professionale del medico in termini di corretta e completa tenuta e conservazione della cartella clinica. Infatti, con ordinanza n. 18567 del 13 luglio 2018, la Terza Sezione Civile della Corte di Cassazione pronunciandosi nuovamente in materia di smarrimento e di omessa tenuta della cartella clinica, ha ritenuto opportuno fare un distinguo tra l'obbligo di compilazione e quello di conservazione della cartella clinica.

Durante la permanenza del paziente nella struttura ospedaliera, il medico è tenuto ad una corretta conservazione della cartella clinica, ma tale obbligo si esaurisce nel momento in cui avviene la consegna della cartella clinica stessa all'archivio centrale; tale passaggio determina il trasferimento della responsabilità per omessa conservazione della cartella clinica dall'operatore sanitario alla struttura sanitaria.

È chiaro, quindi, che la presenza di eventuali vizi in relazione alla regolare e completa tenuta della cartella clinica non possono ricadere a pieno titolo sul medico stesso. Tutto ciò, seppur non esima l'operatore sanitario dall'assolvere all'onere probatorio dettato dal principio di vicinanza della prova, sicuramente lo mitiga.

I professionisti sanitari devono articolare le proprie difese chiedendo la disponibilità della cartella clinica alla struttura sanitaria di appartenenza, documento che deve essere stato redatto scrupolosamente e diligentemente per rappresentare una prova inconfutabile di corretto adempimento e assolvimento dei propri doveri professionali durante la presa in carico del paziente.

La cartella clinica: quale responsabilità penale per il medico certificatore?

I casi più ricorrenti di responsabilità penale del medico, possono ricondursi principalmente a due ipotesi di reato previste e disciplinate dal nostro Codice Penale e cioè la fattispecie criminosa della contraffazione e quella dell'alterazione della cartella clinica. La redazione di una cartella clinica da parte di una persona diversa da quella cui spettava realizza la fattispecie criminosa di contraffazione della cartella clinica. In tale circostanza, la condotta del sanitario pregiudica la stessa autenticità del documento impedendo di risalire all'autore della compilazione della stessa. Al contrario, l'alterazione del predetto documento sanitario, si realizza laddove vengano apportate delle modificazioni dopo la redazione definitiva dello stesso e quindi in tempi successivi alla compilazione quando oramai qualsiasi aggiunta e/o modificazione deve ritenersi non solo ingiustificata, ma anche illegittima.

In entrambe le ipotesi sopra descritte, si configura la c.d. falsità materiale in atto pubblico prevista e disciplinata dall'art. 476 c.p.

L'art. 479 c.p. disciplina l'ipotesi del falso ideologico, che ricorre qualora il medico, chiamato a redigere la cartella clinica, attesti fatti non conformi al vero. In tale caso, il Legislatore ha voluto tutelare la genuinità e veridicità del documento sanitario.

Le summenzionate ipotesi di reato si configurano laddove colui che compie l'attività illecita, meglio descritta negli artt. 476 e 479 c.p., sia qualificabile come un pubblico ufficiale, ossia un soggetto con capacità di esteriorizzare la volontà della Pubblica Amministrazione.

Da tali argomentazioni è facile intuire come vi sia una stretta correlazione tra condotta delittuosa ed esercizio di pubbliche funzioni. L'elemento psicologico richiesto dalle normative in commento, ai fini della configurazione di entrambe le fattispecie criminose, è il dolo, ossia la coscienza e volontà, del singolo autore del reato, di compiere l'azione delittuosa volta a minare il corretto funzionamento della Pubblica Amministrazione.

 

 

  1. COMMENTO ARTICOLO CINQUE -  LE LINEE GUIDA                                                                       (a cura dell’Avv. Vincenzo Ruggiero)

Il rilievo conferito dalla legge Gelli alle linee guida e alle buone pratiche clinico-assistenziali, così come disciplinate dall’art. 5, rappresenta un aspetto centrale della riforma e su cui, ritengo, ruoteranno le strategie di difesa dei medici e degli operatori sanitari in genere assistiti dai loro Legali.  

Significative novità risultano introdotte dalla legge Gelli lungo il tracciato già posto dalla legge Balduzzi: all’art. 7, infatti, si afferma che «il giudice, nella determinazione del risarcimento del danno, tiene conto della condotta dell'esercente la professione sanitaria ai sensi dell'articolo 5 e dell'articolo 590-sexies del codice penale, come introdotto dal precedente articolo 6». Gli effetti, sul piano risarcitorio, paiono ricalcare le medesime previsioni della legge Balduzzi; importanti innovazioni risultano tuttavia introdotte con riguardo all’individuazione del comportamento rilevante ai fini del riconoscimento di una “responsabilità affievolita”. Molto complessa e articolata appare in effetti, la delimitazione dello standard comportamentale di cui tener conto, visto che esso dev’essere ricavato tramite un duplice rinvio:

  • all’art. 5 della medesima legge, il quale impone agli esercenti le professioni sanitarie un comportamento che si attenga «salve le specificità del caso concreto, alle raccomandazioni previste dalle linee guida» e, in mancanza di tali raccomandazioni «alle buone pratiche clinico-assistenziali»;
  • all’art. 590-sexies c.p. (anch’esso introdotto con l’art. 6 in sede di riforma), il quale esclude la punibilità in sede penale a fronte di quell’evento che si sia verificato a causa di imperizia, laddove risultino rispettate le raccomandazioni previste dalle linee guida, ovvero - in mancanza di queste - le buone pratiche clinico-assistenziali, sempre che le raccomandazioni previste dalle predette linee guida risultino adeguate alle specificità del caso concreto. La legge prescrive all’art. 6 che le linee guida sono definite e pubblicate ai sensi di legge, in mancanza occorrerà seguire le buone pratiche. 

Le linee guida costituiscono “raccomandazioni di comportamento clinico, elaborate mediante un processo di revisione sistematica della letteratura e delle opinioni scientifiche, al fine di aiutare medici e pazienti a decidere le modalità assistenziali più appropriate in specifiche situazioni cliniche”. E’ questa la definizione, spesso richiamata, dell’Institute of Medecine statunitense.

Le linee guida rappresentano, un insieme di regole alquanto eterogeno: di qui la necessità di individuare quelle deputate ad essere prese a riferimento ai fini della responsabilità del sanitario. Mentre la legge Balduzzi non forniva, al riguardo, indicazioni precise – in quanto si limitava a richiamare in maniera generica le linee guida accreditate dalla comunità scientifica – in sede di riforma è stato introdotto un sistema nazionale di accreditamento. Se questa previsione, da un lato, permette di individuare in maniera chiara quali siano le linee guida da prendere in considerazione, essa innesca, dall’altro lato, problemi di varia natura. Mi limito a segnalare il fatto che il nuovo sistema prevede si tenga conto esclusivamente delle raccomandazioni elaborate da enti/istituzioni/associazioni/società tecnico-scientifiche le quali intendano attivarsi per ottenere l’iscrizione in un apposito elenco e che, al tal fine, siano in possesso di una serie di requisiti individuati dal legislatore: tra i quali è, ad esempio, incluso un requisito minimo di rappresentatività sul territorio nazionale, che ben potrebbe mancare in capo a talune organizzazioni pur aventi spessore internazionale.[12] Non va taciuto, inoltre, il fatto che gli enti in questione sono chiamati a esplicare un ruolo attivo per poter essere inseriti nell’elenco, tale da comportare l’esclusione di tutti quegli organismi i quali non nutrano alcun interesse ad intraprendere un simile percorso burocratico. Va, peraltro, segnalato che le linee guida prodotte dagli organismi inclusi nell’elenco sono rese conoscibili, tramite pubblicazione sul sito internet dell’Istituto superiore di sanità pubblica, «previa verifica della conformità della metodologia adottata a standard definiti e resi pubblici dallo stesso Istituto, nonché dalla rilevanza delle evidenze scientifiche dichiarate a supporto delle raccomandazioni». Viene introdotto, per questa via, un ulteriore filtro selettivo suscettibile di restringere il perimetro delle raccomandazioni rilevanti. Il quadro complessivo che deriva da indicazioni del genere risulta alquanto frammentato, in vista della molteplicità dei livelli di accreditamento delle linee guida: vanno infatti distinte quelle genericamente accreditate dalla comunità scientifica, dal novero più ristretto di quelle prodotte dagli enti inclusi nell’elenco; rispetto a queste ultime, ancor più limitato risulta l’insieme delle raccomandazioni che abbiano superato la verifica dall’Istituto superiore di sanità pubblica, che – peraltro - sono le sole suscettibili di assumere rilevanza ai fini del trattamento di favore dell’operatore sanitario. Varie le situazioni problematiche che possono manifestarsi a fronte di uno scenario del genere: tanto per fare un esempio, potremmo trovarci di fronte al caso di un conflitto tra linee guida verificate e linee guida non comprese nel sistema, in quanto accreditate da soggetti internazionali non inclusi nell’elenco o in quanto più aggiornate rispetto a quelle inserite nel sistema. Un modello di questo tipo si presta, allora, a favorire l’appiattimento del comportamento dell’esercente la professione sanitaria su raccomandazioni non necessariamente ottimali, al fine di vedersi garantiti effetti giuridici vantaggiosi sul piano della responsabilità.

Un altro profilo problematico si prospetta per il fatto che le raccomandazioni previste dalle linee guida non rispecchiano necessariamente lo standard di comportamento cui l’esercente la professione sanitaria dovrà adeguarsi per vedersi garantita l’applicazione della disciplina di favore. A venire in gioco sono, infatti, indicazioni che fanno capo a una situazione astratta, cui viene ricollegato un certo comportamento da seguire, sulla base di una regola dell’esperienza o della migliore scienza; ove la situazione concreta con la quale si misura il medico non venga a corrispondere a quel modello, sarà invece necessario discostarsi da quelle indicazioni.[13]

 In sede di riforma si afferma esplicitamente che la rilevanza delle linee-guida va riconosciuta esclusivamente nei casi in cui emerga la relativa adeguatezza a governare la specificità del caso concreto (v., in tal senso, art. 5 e art. 6). Viene, pertanto, in gioco un profilo che dovrà essere rimesso alla valutazione giudiziale e, dunque, alle conclusioni raggiunte sul punto in sede di consulenza tecnica. La soluzione può risultare controversa, considerato che sono le medesime linee guida a prevedere una varietà di “classi di raccomandazione”, per cui la risposta potrà apparire univoca laddove ci si trovi alle estremità della scala, mentre i dubbi sono destinati a moltiplicarsi ove ci si collochi nella zona intermedia. 

Qualora l’esercente la professione sanitaria si trovi ad operare in un ambito rispetto al quale non siano previste linee-guida, egli è chiamato ad attenersi alle buone pratiche clinico-assistenziali. Queste ultime vengono, quindi, ad assolvere una funzione sussidiaria, in quanto considerate rilevanti esclusivamente laddove manchino raccomandazioni del primo tipo. Sembra opportuno interpretare in senso ambio questo ruolo: a tali indicazioni bisognerà fare riferimento anche nelle ipotesi in cui l’operatore sanitario affronti una fattispecie, astrattamente governata da linee guida, le quali tuttavia non si prestino ad essere applicate al caso concreto. Se così non fosse, in queste ipotesi egli si troverebbe escluso per definizione dalla possibilità di accedere al trattamento di favore (sia ai fini penali che civili); con l’effetto finale di spingere gli operatori sanitari a non prendere in carico pazienti la cui situazione non si presti ad essere gestite tramite le linee-guida (come ad esempio soggetti affetti da multipatologie).

Bisogna, in ogni caso, segnalare che - per quanto concerne le buone pratiche – si registra una difficoltà ancor più pregnante, rispetto al campo delle linee guida, per quanto concerne la definizione del fenomeno. Gli interrogativi che sono emersi in passato a tale riguardo vengono a moltiplicarsi alla luce di quanto stabilito a livello di riforma: in seno alla quale l’art. 3 prevede l’istituzione di un Osservatorio nazionale, cui spetta il monitoraggio delle buone pratiche per la sicurezza delle cure. Si tratta, allora, di stabilire le relazioni e/o sovrapposizioni che sussistono tra le regole che verranno ricondotte a tale sistema e quelle dettate dalle buone pratiche clinico-assistenziali cui sono chiamati ad attenersi, alla stregua dell’art. 5, gli esercenti le professioni sanitarie.

La riforma Gelli, prevede, infatti, una regola di comportamento maggiormente articolata, in quanto si ricollega al rispetto delle linee guida, fatte salve le specificità del caso concreto. Non potrà dirsi, perciò, conforme allo standard normativo (foriero, in ambito civilistico, di un affievolimento della risposta risarcitoria) quel trattamento avvenuto nel rispetto di raccomandazioni che non apparivano adeguate a governare la peculiarità della situazione.

Una conclusione del genere risulta apertamente confermata dalle previsioni dettate a livello penale dal nuovo art. 590-sexies c.p., che esclude la punibilità dell’esercente la professione sanitaria a fronte di un comportamento rispettoso delle linee-guida, «sempreché le raccomandazioni previste dalle predette linee guida risultino adeguate alle specificità del caso concreto».[14]

Va segnalata, inoltre, un’ulteriore limitazione quanto al raggio di azione della disciplina di favore per l’operatore sanitario, rispetto a quanto previsto dalla legge Balduzzi, con riguardo al tipo di violazione imputabile al sanitario. L’art. 590-sexies c.p. assicura la non punibilità esclusivamente ove l’evento si sia verificato a causa di imperizia, mentre l’esercente la professione sanitaria – che si sia uniformato a linee guida adeguate al caso concreto - rimarrà pienamente responsabile ove abbia agito in maniera negligente o imprudente. Sotto questo profilo sono destinati ad emergere significativi problemi applicativi, vista le difficoltà -  già in passato segnalate dagli interpreti – riguardanti la determinazione di un confine preciso tra il concetto di imperizia e quelli di negligenza e imprudenza.

 

Il decreto 27.2.2018 e le società accreditate alla predisposizione delle linee guida.

Vi è a questo punto da segnalare che nel febbraio del 2018 (27.2.2018) risulta esser stata raggiunta l'intesa in Conferenza Stato Regioni sul decreto del Ministero della Salute che istituisce il Sistema Nazionale Linee Guida.

Con il benestare delle Regioni, il DM 27 febbraio 2018 approda alla Gazzetta Ufficiale ed entra in vigore. Si tratta di uno dei decreti attuativi della Legge sulla responsabilità professionale degli esercenti le professioni sanitarie. Le Regioni hanno chiesto che il  Sistema Nazionale Linee Guida (SNLG) non interferisca con i  modelli organizzativi e le materie che sono di competenza regionale. Inoltre, l'intesa è stata sancita in seguito alla richiesta di aumentare i rappresentanti regionali nel Comitato strategico, da uno solo a quattro.
Il Sistema SNLG è allocato presso l'Istituto superiore di sanita' pubblica. All'ISS compete la pubblicazione sul  proprio sito internet delle linee guida (e successivi aggiornamenti).
La pubblicazione consegue alla verifica che le linee guida siano state redatte in conformita' a standard definiti e resi pubblici dallo stesso Istituto e che corrispondano alle evidenze scientifiche dichiarate a supporto delle raccomandazioni scientifiche, cliniche e di buona prassi.

Il Sistema nazionale SNLG costituirà "l'unico punto di accesso" alle linee guida elaborate dalle società scientifiche elencate dal Ministero della Salute, a cui potranno rifarsi gli esercenti le professioni sanitarie in sede giudiziaria in caso di contenzioso per responsabilità professionale.

Da ultimo, con molto ritardo, un ulteriore tassello si è aggiunto al quadro legislativo in commento : il ministero della Salute ha pubblicato, come previsto dall’art. 5 legge Gelli e dal Decreto Ministeriale del 2 agosto 2017,  sul proprio portale l'elenco di 293, tra società scientifiche e associazioni tecnico-scientifiche delle professioni sanitarie, abilitate a produrre linee guida cui i medici e gli altri operatori sanitari dovranno attenersi nello svolgimento della propria attività. Secondo l'articolo 6 della legge Gelli ("Responsabilità penale dell'esercente la professione sanitaria"), «qualora l'evento avverso si sia verificato a causa di imperizia, la punibilità è esclusa quando sono rispettate le raccomandazioni previste dalle linee guida come definite e pubblicate ai sensi di legge ovvero, in mancanza di queste, le buone pratiche clinico-assistenziali, sempre che le raccomandazioni previste dalle predette linee guida risultino adeguate alle specificità del caso concreto».

Nell'elenco - che il ministero avrebbe dovuto pubblicare entro tre mesi dall'entrata in vigore della legge - compaiono le 293 società e associazioni che hanno superato la valutazione sul piano amministrativo, in quanto hanno presentato tutte uno statuto aggiornato successivamente all’entrata in vigore del decreto ministeriale. La lista sarà aggiornata ogni due anni. Non vi sono state inserite: le società o associazioni tecnico scientifiche che unitamente alla presentazione dell’istanza non hanno allegato, come richiesto dal Decreto ministeriale, lo statuto; le società e associazioni il cui statuto non risulta aggiornato ai contenuti richiesti dal Dm 2 agosto 2017 e le società i cui statuti, sebbene aggiornati successivamente al Decreto ministeriale, sono totalmente non aderenti ai requisiti previsti dal Decreto ministeriale.

 

  1. LA LIMITAZIONE DEL RISARCIMENTO

             (a cura degli Avv.ti Vincenzo Ruggiero e Giuseppe Pepe).

Il trattamento di favore, in ambito civilistico, si produce nei termini di una limitazione del risarcimento. Si tratta di una previsione - già contenuta nella legge Balduzzi e confermata, sia pure a fronte di un perimetro più ristretto di casi, dalla riforma Gelli – di non facile applicazione e che, prevedibilmente, incontrerà il disfavore e le resistenze del formante giudiziario. Non a caso, osservava M. Rossetti (Magistrato di Corte di Cassazione), già qualche anno fa a proposito della legge Balduzzi, che sul tema della liquidazione del danno «… da ventidue secoli, da quando Ulpiano scrisse che nella liquidazione del danno quanti ea res erit, tantam pecuniam condemnàto, si tiene conto unicamente della perdita, non si tiene conto del dolo o della colpa grave o della colpa lieve di chi quel danno ha causato. Se io perdo un orologio o perché mi viene sottratto colposamente o mi viene sottratto dolosamente il mio diritto resta identico: ho diritto alla restituzione dell'orologio. Non è che se me lo rubano con dolo io ho diritto a un risarcimento maggiore rispetto alle ipotesi in cui me lo sottraggono per colpa. Dunque poiché l’interprete ha l’obbligo di interpretare la norma in modo coerente con l'ordinamento e con le altre norme già esistenti, e poiché principio fondamentale dell'ordinamento è che il risarcimento del danno, il quantum del risarcimento prescinde dalla gravità della colpa o dalla intensità del dolo, questa norma mi pare non si possa intendere nel senso che il risarcimento deve essere diminuito quando il medico è in colpa lieve. Quindi la conclusione di quanto ci siamo detti sin qui è che per effetto dell'introduzione del decreto Balduzzi, quali che siano state le intenzioni del legislatore al riguardo, nulla è cambiato, né nella quantificazione del risarcimento del danno causato dal medico, né nella qualificazione della natura delle responsabilità medica.». Usualmente, quindi, la quantificazione del risarcimento non risulta influenzata, sul piano della responsabilità civile, dal tipo di comportamento tenuto dal danneggiante. Di tale ultimo dato il giudice tiene conto esclusivamente al fine di stabilire se il soggetto debba essere considerato responsabile, versando o meno in colpa; una volta sciolta in senso positivo una simile verifica, nessun peso viene a rivestire -  in genere - l’elemento soggettivo ai fini della liquidazione del danno da risarcire alla vittima. Nei casi eccezionali ove ciò accada, in quanto normativamente stabilito, a venire in evidenza appare un comportamento particolarmente grave, fonte come tale del ristoro di danni punitivi. In senso diametralmente opposto risulta orientata la disciplina in esame, dal momento che lo standard di comportamento tenuto dal danneggiante risulta preso in considerazione in una prospettiva di favore nei suoi confronti; il giudice viene chiamato a tenere conto, nella determinazione del danno, della circostanza che l’esercente la professione sanitaria abbia rispettato le linee guida/ buone pratiche adeguate al caso concreto, ai fini di procedere a una riduzione del risarcimento. [Non pare, in effetti, praticabile una lettura di segno opposto, volta a sancire un appesantimento del ristoro dovuto dal sanitario laddove il suo comportamento appaia particolarmente riprovevole: tanto più che, in sede di riforma, scompare qualsiasi riferimento alla colpa grave.]  

Non è affatto chiaro in che termini debba operare una simile limitazione. Il dato preso in considerazione – rappresentato dal rispetto delle linee guida/buone pratiche – pone davanti ad un’alternativa binaria, tra osservanza o meno di tali raccomandazioni (a meno, in una prospettiva non condivisibile, si voglia considerare rilevante, ai fini del trattamento di favore, anche l’osservanza soltanto parziale delle raccomandazioni in parola). Ciò significa, allora, che il rispetto delle linee guida/buone pratiche incarna bensì il presupposto affinché si possa procedere a una riduzione risarcitoria, ma la modulazione della stessa dovrà essere effettuata utilizzando qualche altro criterio, suscettibile di graduazione.

All’interno della legge Balduzzi, un parametro del genere può essere identificato nella gravità della colpa del danneggiante: ciò in quanto il legislatore rendeva operante l’esimente penale laddove il sanitario fosse incorso in una colpa lieve, affermando la rilevanza di tale comportamento ai fini del ristoro del danno in ambito civile. In definitiva, il rispetto delle linee guida/buone pratiche rappresenta la condizione affinché il giudice possa valutare la gravità della colpa dell’operatore sanitario: mentre il risarcimento risulta dovuto interamente in caso di colpa grave, andrà incontro a una riduzione in presenza di colpa lieve. La riforma Gelli viene a complicare il quadro, dal momento che scompare ogni riferimento alla graduazione della colpa; infatti, a livello penale, si prevede la non punibilità in caso di imperizia (avvenuta nel rispetto delle linee-guida/buone pratiche), in assenza di ogni richiamo all’eventuale gravità del comportamento del sanitario. Scompare, così, l’aggancio normativo che permetteva di ricollegare la graduazione del quantum risarcitorio alla gravità della colpa.

Ulteriori zone d’ombra, derivanti dall’applicazione della nuova disciplina, coinvolgono l’individuazione dei soggetti a favore dei quali si rende operante la limitazione risarcitoria. Non è chiaro, infatti, se della riduzione possa giovarsi esclusivamente l’esercente la professione sanitaria, oppure se l’alleggerimento sia attivabile anche a favore della struttura sanitaria/sociosanitaria che risponde, a titolo contrattuale, della condotta colposa o dolosa di quel soggetto.

Va, infine, osservato che la limitazione risarcitoria risulta inserita in un sistema che - già in termini generali – nega l’applicazione del principio di integrale risarcimento del danno. Prima la legge Balduzzi, poi la riforma Gelli, rimandano all’applicazione del modello risarcitorio operante, attraverso gli artt. 138 e 139 cod. ass., in materia di sinistri stradali, il quale risulta imperniato su una compressione della risposta risarcitoria poichè fondato, da un lato, sull’adozione di valori del punto di invalidità permanente di gran lunga inferiori rispetto a quelli abitualmente praticati dalla giurisprudenza e, dall’altro lato, sulla previsione di un tetto massimo al risarcimento entro il quale viene ricondotto l’intero ventaglio delle ripercussioni non patrimoniali patite dalla vittima. Laddove il risarcimento, già compresso dall’applicazione di un sistema del genere, subisca un ulteriore taglio in correlazione al rispetto le linee-guida/buone pratiche, risulta estremamente difficile parlare di responsabilità; nei casi in cui sia previsto il trattamento di favore del sanitario (destinati, peraltro, a non essere molto numerosi, considerate le limitazioni più sopra illustrate), egli si troverà a versare, in effetti, un mero indennizzo a favore della vittima.

Tale ultima norma definisce le modalità di elaborazione e pubblicazione delle linee guida, alle cui raccomandazioni “salve le specificità del caso concreto” gli esercenti le professioni devono attenersi (in mancanza di linee guida si atterranno invece “alle buone pratiche clinico assistenziali”). Ciò pone l’esigenza di comprendere meglio quale possa essere il “peso” delle linee guida nella formulazione di un giudizio di responsabilità civile.  Il rinvio alle “specificità del caso concreto” consente di affermare, che il solo fatto di aver applicato le linee guida non assicuri un “foglio di via”, non esoneri cioè il professionista da un eventuale obbligo risarcitorio; tale conclusione sembra coerente con gli approdi della giurisprudenza (che peraltro ha affrontato il tema per lo più in ambito penalistico). Ciò discende dalla stessa natura delle linee guida, che sono generali, dettate per casi astratti: come è stato acutamente osservato, le linee guida “non sono un binario che unisce due punti, ma un’autostrada con incroci, ortogonali e tangenti”: esse, cioè, non dettano regole univoche ed imperative, ma sono delle “raccomandazioni” che hanno una maggiore o minore “forza” a seconda della tipologia e degli studi pubblicati.  Alla luce di tale realtà sorge quindi il problema di come valutare effettivamente la sussistenza della colpa del medico che si attenga alle linee guida sostenute da una corrente scientifica o da un’altra.

Tale aspetto incide anche sulla libertà professionale del medico in quanto potrebbe essere portato, nello svolgimento del suo lavoro, a tradire le proprie convinzioni su un determinato approccio terapeutico per seguire le linee guida prevalenti e quindi evitare una valutazione negativa del proprio operato.[15] A differenza della norma del 2012, in cui il riferimento alle linee guida era relativo alla configurabilità di eventuali illeciti, l’attuale formulazione dell’art. 5 del testo Gelli – Bianco (che riprende la tematica nell’articolo 6 con riguardo al profilo penale e all’art. 7 con riguardo al profilo civilistico) sembra ridurre, e di molto, la libertà e l’autonomia dei medici che – al pari degli operatori sanitari – sono tenuti ad adeguarsi alle linee guida.  Lo spiraglio sembra aprirsi allorquando la norma fa riferimento alle ipotesi in cui sono fatte “salve le specificità del caso concreto”. Sarà allora importantissimo per l’operatore sanitario, quasi in maniera maniacale, verbalizzare nelle cartelle cliniche le motivazioni a fondamento della sua scelta operatoria, chirurgica, clinica e anche posologica rispetto alla somministrazione di farmaci. 

Proprio al fine di ridurre al minimo gli spazi di incertezza, l’art. 5 prevede un iter di elaborazione, raccolta e pubblicazione delle linee guida minuziosamente calibrato e integrato nel Sistema nazionale per le linee Guida, “il quale è disciplinato nei compiti e nelle funzioni con decreto del Ministro della salute [...] entro 120 giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge”.

Ma in concreto cosa significa il richiamo alla osservanza (o meno...) delle linee guida come elemento di graduazione favorevole del risarcimento? Nella logica del codice civile (e, in particolare, secondo la regola dell’art. 1223 c.c.) rispondere per colpa lieve o grave è indifferente ai fini della liquidazione del danno (essendo in linea di principio irrilevante la qualificazione del comportamento dell’agente). In prima battuta viene spontanea una obiezione: la norma contiene in sé il germe di una (almeno apparente) contraddizione perché nella prassi le linee guida sono spesso intese come espressione di leges artis. Per esempio, si è osservato che l’obiettivo della “codificazione del sapere medico” è quello di “guidare” il professionista “nello svolgimento del suo lavoro tramite una regolamentazione della fase applicativa della ricerca medica secondo protocolli scientifici, linee-guida e raccomandazioni, l’utilizzo dei quali costituisce garanzia di osservanza di buona pratica clinica ed è considerata sinonimo di osservanza delle ‘regole dell’arte” (cfr. la nota  pronuncia del Tribunale di Milano (G.U. Dott. Spera) n. 5305 del 22 aprile 2008).[16]

La definizione di linee guida è stata ufficialmente coniata nel 1992 dall’Institute of Medicine statunitense, che le ha qualificate come “raccomandazioni di comportamento clinico, prodotte attraverso un processo sistematico allo scopo di assistere medici e pazienti nel decidere quale siano le modalità di assistenza più appropriate in specifiche circostanze cliniche”. Parrebbe dunque trattarsi di una sorta di “summa” del sapere scientifico. Scopo delle linee guida sarebbe, pertanto, quello di indirizzare il sanitario tra le diverse notizie provenienti dalla letteratura medica, preselezionando le informazioni utili a impostare la soluzione di una questione clinica con la maggior probabilità di successo e il minor dispendio di risorse disponibili[17]. Vien dunque da chiedersi: posto che, per definizione, la “colpa” consiste nella inosservanza delle “regole dell’arte”, come è possibile che il medico che ha applicato le linee guida (pertinenti al caso di specie) risponda comunque? Una prima ipotesi potrebbe essere quella del professionista che abbia seguito alla lettera le “prescrizioni” astratte e, tuttavia, abbia commesso un errore materiale nella loro esecuzione; si potrebbe sostenere che, in questo caso, egli si è comunque “attenuto” alle linee guida, salvo aver sbagliato nella loro concreta “messa in opera”.

E allora: in via teorica, perché possa profilarsi una “colpa” (nonostante la loro osservanza) occorre che il medico abbia “infranto” un altro precetto (ovvero, le leges artis). E ove ancora si negasse che tali fattispecie rientrino nell’art. 2236 c.c. (perché non eccezionali o poco studiate o nuove), si potrebbe sostenere che al chirurgo che si è attenuto alle linee guida e, tuttavia, nella esecuzione pratica ha commesso degli errori potrà essere (civilisticamente) mosso un addebito in termini di (sola) colpa lieve. Cosa accade poi nell’ipotesi in cui il medico non abbia seguito le linee guida? Anche qui si aprono due diversi scenari: se erano controindicate in ragione delle peculiarità della fattispecie (o se erano addirittura espressione di esigenze economiche, non compatibili con la tutela del paziente) nulla quaestio: non si potrà muovere al medico nessun rimprovero (sempreché, ovviamente, la sua condotta non sia stata per altro verso comunque negligente, diligente o imperita).

Al fine dunque di assicurare un’omogeneità di applicazione alle linee guida, il legislatore con la legge Gelli ha recentemente previsto all’art. 5 che: “Gli esercenti le professioni sanitarie, nell’esecuzione delle prestazioni sanitarie con finalità preventiva, diagnostiche, terapeutiche, palliative, riabilitative e di medicina legale, si attengano salve specificità del caso concreto, alle raccomandazioni previste dalle linee guida pubblicate (...) ed elaborate da enti ed istituti pubblici e privati nonché dalle società scientifiche e dalle associazioni tecnico-scientifiche delle professioni sanitarie iscritte in apposito elenco istituito e regolamentato con decreto del ministro della salute(...). In mancanza delle suddette raccomandazioni, gli esercenti le professioni sanitarie si attengano alle buone pratiche clinico-assistenziali. L’istituto superiore di sanità pubblica nel proprio sito internet inserirà le linee guida e gli aggiornamenti delle stesse indicati dal SNLG previa verifica della conformità della metodologia adottata a standard definiti e resi pubblici dallo stesso istituto”.

Per espressa previsione normativa le linee guida così stabilite dovranno essere aggiornate con cadenza biennale.

Non è prevista una definizione di buone pratiche clinico assistenziali o da chi debbano essere validate per essere definite buone; la “buona pratica” potrebbe dunque essere il buon senso clinico? Oppure lo stato dell’arte delle linee guida già disponibili? Oppure ancora la buona pratica non dovrebbe già ricomprendere l’osservanza delle linee guida?  

Con riguardo al profilo tecnico legale dovrà tenersi a mente che in giurisprudenza si è chiarito che il medico che assuma di aver rispettato le regole di diligenza e i protocolli ufficiali deve allegare le linee guida alle quali egli ha conformato il suo operato e la sua condotta al fine di verificare la loro correttezza e scientificità.[18]

In definitiva, la novella legislativa, quindi, individua una soluzione di compromesso, in cui le linee guida costituiscono a tutti gli effetti regole di soft law regolarmente codificate; ma, nello stesso tempo, le specificità del caso concreto vengono tenute in considerazione, qualora le citate linee guida non possano o non debbano essere osservate. L’intento della legge Gelli sembra, quindi, quello di considerare le linee guida come uno strumento flessibile per l’accertamento della colpa (nella sola accezione, però, di “imperizia”), senza però inferirne la sussistenza in caso di inosservanza di tali regole e viceversa. Tale modus operandi potrebbe e dovrebbe essere utilizzato anche dalla giurisprudenza civile per verificare l’esattezza o meno dell’adempimento del sanitario. In particolare, nell’ambito civilistico appare opportuno, a parere di chi scrive, distinguere due diverse ipotesi.

La prima ricorre nel caso in cui le linee guida si adattino completamente al caso specifico e si discuta della perizia del sanitario: la prestazione del sanitario coincide con la loro osservanza, con la conseguenza che ogni qualvolta le linee guida vengano rispettate, il giudice civile dovrà necessariamente esonerare da responsabilità il medico. In tale ipotesi, infatti, il sanitario, dimostrando di aver rispettato le linee guida, ha già provato l’esattezza del suo adempimento, il quale non è costituito dal miglioramento o dal non peggioramento delle condizioni di salute del paziente, ma appunto dall’osservanza di quelle regole che la scienza medica ritiene di applicare in quella specifica situazione. Ogni eventuale accertamento sulla causa ignota che ha cagionato il danno al paziente dovrebbe, quindi, essere precluso: non si deve verificare, infatti, se l’impossibilità di eseguire esattamente la prestazione sia derivata da una causa non imputabile al medico, in quanto la prestazione è stata già esattamente adempiuta dal sanitario.

Appare opportuno, quindi, separare la prova dell’adempimento da quella sull’imputabilità della causa ignota. Quest’ultima dimostrazione deve, infatti, essere fornita solo e soltanto nel caso in cui il debitore non riesca a dimostrare l’esattezza della prestazione eseguita.

Nei casi in cui le linee guida non siano applicabili o la contestazione mossa nei confronti del sanitario sia di negligenza e imprudenza e non di imperizia, la prova dell’esattezza dell’adempimento non potrà coincidere con la dimostrazione dell’osservanza delle linee guida. Tuttavia, ogni qualvolta il sanitario riesca a dimostrare la correttezza delle ragioni che hanno escluso l’applicabilità delle linee guida allo specifico caso, si porranno le basi per verificare se vi sia stato o meno esatto adempimento. Come affermato da autorevole dottrina (in questo senso si vedano le considerazioni di M. Franzoni, Colpa e Linee guida, in Danno e resp., 2016, 801 ss.), a seguito della legge Balduzzi (e ora della legge Gelli) ciò che è antigiuridico (ed è, quindi, fonte di responsabilità) è di aver ignorato le citate linee guida e non l’essersene discostati. È chiaro che poi, nelle ipotesi in cui queste ultime non siano applicabili, sarà necessario compiere un accertamento sulla diligenza o meno del medico. Nondimeno, anche le motivazioni che hanno condotto il sanitario a non utilizzare le citate linee guida dovrebbero costituire un principio di prova dell’esatto adempimento.

La possibilità di utilizzare le linee guida come criterio per accertare la responsabilità del medico anche sotto il profilo civilistico è stata recepita da una parte della giurisprudenza di merito dopo l’entrata in vigore della L. n. 189/2012 (legge Balduzzi) e dovrebbe essere presa in considerazione soprattutto a seguito della definitiva approvazione alla Camera della legge Gelli. In questo senso si segnala una sentenza del Tribunale di Cremona (Trib. Cremona 19 settembre 2013, in Resp. civ. prev., 2014, 1322 ss., Giuffrè Editore, con nota di F. Galletti, L’art. 3 comma 1 della legge Balduzzi: su chi grava il rischio delle c.d. con[cause] ignote?) del settembre 2013, la quale ipotizza che “l’art. 3 nel riferirsi alle linee guida vada a impattare soprattutto sul rischio delle concause ignote, comportando che laddove l’intervento non abbia avuto successo o si sia verificato un sito infausto o inatteso, malgrado il rispetto delle linee guida, il sanitario dovrà provare di aver rispettato lo standard curativo della sottoclasse nella quale può essere fatto rientrare il paziente. Quest’ultimo dovrà, invece, dimostrare che l’esito infausto dell’intervento è dipeso dal fatto che il sanitario in presenza di certe specificità del caso concreto avrebbe dovuto scostarsi dalle linee guida ed operare diversamente, oltre ovviamente alla prova che tale diversa condotta sarebbe stata salvifica.”. Sulla possibilità per il sanitario di esonerarsi da responsabilità con la dimostrazione di aver rispettato le linee guida si è espresso anche il Tribunale di Arezzo (Trib. Arezzo 14 gennaio 2014, in Sistema Leggi d’Italia), il quale, però, ha evidenziato come il sanitario debba provare non solo il loro rispetto, ma anche che “tali linee guida indichino standard diagnostico-terapeutici conformi alle regole dettate dalla migliore scienza medica a garanzia della salute del paziente e non siano ispirate ad esclusive logiche di economicità della gestione, sotto il profilo del contenimento delle spese, in contrasto con le esigenze di cura del paziente.”.

Si ritiene (e si auspica), quindi, che anche in futuro la giurisprudenza potrà utilizzare le linee guida come punto di partenza per verificare l’esattezza dell’adempimento del sanitario e della struttura che si trovi a rispondere dell’operato dei propri dipendenti.

Nonostante le criticità ora analizzate, le linee guida costituiscono, infatti, un indice indicativo della perizia o meno del sanitario: è innegabile che tali raccomandazioni presentino l’indiscutibile vantaggio di fornire - sia all’operatore medico ex ante sia al giudice penale e civile ex post - un comune parametro, sebbene astratto e generale, per identificare, almeno parzialmente, la condotta doverosa.

 

  1. COMMENTO ART. SETTE COMMA QUARTO:                                                         I CRITERI DI LIQUIDAZIONE IN BASE AGLI ARTT. 138-139 CODICE ASSICURAZIONI

(a cura dell’Avv. Vincenzo Ruggiero).

 

Il comma 4 dell’art. 7 così recita Il danno conseguente all’attività della struttura sanitaria o sociosanitaria, pubblica o privata, e dell’esercente la professione sanitaria è risarcito sulla base delle tabelle di cui agli articoli 138 e 139 del codice delle assicurazioni private, di cui al decreto legislativo 7 settembre 2005, n. 209, integrate, ove necessario, con la procedura di cui al comma 1 del predetto articolo 138 e sulla base dei criteri di cui ai citati articoli, per tener conto delle fattispecie da esse non previste, afferenti alle attività di cui al presente articolo.

Il risarcimento dei danni derivanti da condotte dolose o colpose dei sanitari, per lesioni di non lieve entità conseguenti a medical malpractice, dovrà avvenire sulla base dell’emananda tabella unica nazionale, prevista dal disegno di legge n. 2085 (c.d. d.d.l. concorrenza) attualmente in discussione al Senato.

La disposizione si applica a qualunque danno sanitario, sia esso prodotto nell’ambito della struttura sia esso cagionato da un medico libero professionista. Si tratta di una norma “assicurativamente” orientata, in quanto concepita proprio in funzione e conseguenza dell’introduzione dell’obbligo di assicurare la responsabilità sanitaria. Ed invero viene qui recepita l’impostazione seguita dal Codice delle Assicurazioni private nella parte in cui (artt. 138 e 139) prevede specifiche regole liquidative da adottarsi, in tema di danno alla persona, proprio - e solo - nel settore della r.c. auto; l’introduzione di una autonoma criteriologia liquidativa di tipo tabellare, predeterminata nei valori massimi della personalizzazione dei singoli danni biologici, esprime, infatti, la chiara volontà di porre rimedio a quelle incertezze applicative di fonte giurisprudenziale che tanto pregiudicano la corretta assunzione dei rischi in un settore nevralgico quale quello della circolazione stradale.

La legge Gelli, così come già in passato la legge Balduzzi, fa dunque proprio il contenuto dei menzionati artt. 138 e 139 CAP, ergendoli a capisaldi liquidativi del nuovo sistema della responsabilità sanitaria obbligatoriamente assicurata.[19] Nella mente del legislatore è dunque ben chiaro il rapporto di reciproca interazione tra assicurazione e responsabilità: da un lato la garanzia assicurativa protegge il potenziale responsabile dai rischi intrinseci di una attività socialmente utile, consentendo di affrontarli senza troppo compromettere la propria serenità di azione; dall’altro, l’esistenza di una copertura tutela il danneggiato, rendendo meno probabile il rischio di veder le proprie ragioni risarcitorie insoddisfatte a fronte dell’insolvenza del responsabile. Senonché il nuovo obbligo assicurativo, per non rimanere declinato solo sulla carta, deve essere assolvibile in concreto, deve cioè incontrare un mercato assicurativo in grado di soddisfarlo a condizioni di premio sostenibili per l’utenza. Il che, negli attuali scenari operativi ed in assenza di adeguati correttivi, pare un mero esercizio chimerico. Le disposizioni ora in commento rappresentano una chiara scelta del legislatore volta a contenere i costi risarcitori proprio nell’ottica di garantire la sostenibilità economica finanziaria del sistema. L’entrata in scena, in realtà è vera soltanto a metà, non avendo ancora trovato attuazione la prima delle due disposizioni (quella dedicata alla riparazione delle lesioni di non lieve entità...) attualmente, come detto, all’esame ancora del Senato.

Sul tema infatti, una piccola considerazione merita di esser svolta, ovvero le possibili aree di residua incertezza liquidativa che la legge Gelli finisce per disegnare in modo un pò contraddittorio rispetto alle idee di fondo che presidiano la riforma, perché le tabelle di cui agli artt.138 e 139 sono tutte da verificare visto che potrebbero sia sottostimare che sovrastimare il rimborso dovuto. Inoltre un’opzione del genere solleva tutta una serie di problemi: primo fra tutti quello riguardante la condivisibilità di una scelta volta a estendere un sistema di tabellazione pensato per il settore dei sinistri stradali con riferimento ad un ambito non omogeneo.

Le differenze tra i due campi appaiono assai rilevanti considerato che:

  1. non sussiste un parallelismo tra i due ambiti per il modo in cui viene assolto l’obbligo assicurativo, considerato che nel settore sanitario vengono praticati anche modelli di autoassicurazione;
  2. una diversità sostanziale riguarda il fatto che la circolazione stradale è fenomeno che non appare deputato a toccare la salute dei soggetti ad essa
    partecipi, se non nella malaugurata ipotesi in cui si verifichi un sinistro a danno della persona, mentre l’attività sanitaria coinvolge per definizione la salute del soggetto interessato;
  3. varia la tipologia di danni correlati ai due settori (basti osservare come un tema il quale appare centrale nell’ambito dei sinistri stradali – tanto da spingere il legislatore a dettare precise regole probatorie in proposito – quale il colpo di frusta, risulta del tutto estraneo all’area sanitaria, la quale a sua volta risulta connotata da danni peculiari);
  4. anche sul piano dei costi le dinamiche sono differenti, in quanto chi partecipa alla circolazione stradale può rivestire la parte di danneggiato come quella di danneggiante, trovandosi in quest’ultima veste gravato dei costi dei premi, mentre nella responsabilità sanitaria il costo dei premi non grava mai sulle vittime, le quali non possono quindi trarre alcun beneficio dalla relativa riduzione.

Il modello quantificatorio di riferimento presenta, d’altro canto, una serie di problematiche interne di non poco conto:

(a) si tratta di un sistema non completamente attuato: è noto che, pur essendo passato oramai un decennio dalla sua emanazione, l’art. 138 cod. ass., riguardante i danni derivanti dal lesioni di non lieve entità, è rimasto ancora lettera morta, per cui tale vuoto risulta colmato attraverso l’applicazione delle tabelle elaborate in sede giurisprudenziale; (b) il sistema congegnato dal legislatore è stato oggetto di seri dubbi di costituzionalità; (c) si tratta di un modello in via di revisione sul fronte normativo.

Sino a quando non sarà intervenuto la tabella unica nazionale continueranno a trovare applicazione le note tabelle elaborate dal Tribunale di Milano, adottate ex art. 1226 (valutazione equitativa del danno) e 2056 (valutazione dei danni) del codice civile.

Le tabelle del Tribunale di Milano sono determinanti per la liquidazione del danno non patrimoniale derivante dalla lesione dell’integrità psico-fisica e che rappresentano un criterio di liquidazione condiviso dalla Suprema corte, la quale la ha ritenuta applicabile sull’intero territorio nazionale in assenza di un diverso criterio legale per la liquidazione del danno alla persona.  [20]

Occorre segnalare che nella redazione della futura tabella unica, come da previsione del disegno di legge n. 2085, si dovrà tenere conto “dei criteri di valutazione del danno non patrimoniale ritenuti congrui dalla consolidata giurisprudenza di legittimità” e, dunque, delle tabelle elaborate dall’osservatorio del Tribunale di Milano.

 

  1. COMMENTO ART.  OTTO             TENTATIVO OBBLIGATORIO DI CONCILIZAZIONE

(a cura dell’Avv. Vincenzo Ruggiero e dell’Avv. Corinna Della Monica).

Come ormai noto, la legge Gelli-Bianco ha previsto all’art. 8 che l’azione civile di risarcimento danni da responsabilità sanitaria deve essere preceduta, a pena di improcedibilità, dal ricorso per consulenza tecnica preventiva di cui all’art. 696 bis c.p.c. o, in alternativa, dal procedimento di mediazione ai sensi del d.lgs. n. 28/2010 (art. 5, comma 1bis), restando invece esclusa la necessità di procedere alla negoziazione assistita di cui all’art. 3 L. 132/2014.

A due anni dall’emanazione dell’indicato provvedimento legislativo, appare interessante soffermarsi su alcune questioni giuridiche poste dal nuovo istituto dell’ATP, e segnatamente sul regime intertemporale della norma nonché sull’individuazione dei soggetti che vi possano o vi debbano essere coinvolti.

Prima di addentrarsi nella disamina di tali temi che generano dubbi interpretativi, e che hanno un’evidente ripercussione sul piano processuale, non appare superfluo soffermarsi sulla natura e sulla ratio dell’ATP introdotta dall’art. 8 in commento. Com’è stato autorevolmente chiarito, il procedimento per ATP, elevato a condizione di procedibilità della domanda, cumula in sé sia la funzione conciliativa, sia quella di anticipazione della prova quantomeno in relazione al momento acquisitivo della valutazione medico-legale. La rilevanza ai fini probatori della consulenza redatta in sede di ATP risulta, infatti, sia dalla previsione che il successivo giudizio di merito venga introdotto innanzi al medesimo giudice che ha trattato il procedimento per ATP, il quale ovviamente già conoscerà l’attività sino a quel momento svolta, sia dalla individuazione del rito sommario per il giudizio di merito.

Le questioni giuridiche poste dalla norma in commento alla luce delle prime pronunce giurisprudenziali. Ciò posto, e con riguardo all’ambito di applicazione intertemporale della norma, il Tribunale di Venezia chiamato a pronunciarsi sull’eccezione di inammissibilità del ricorso ex art. 8 L. 24/2017 - sollevata dalla Struttura sanitaria convenuta in quel giudizio - in ragione dell’anteriorità delle condotte rispetto all’entrata in vigore di tale norma, ha chiaritoche “il citato art. 8 è norma di natura processuale che regola tutte le domande proposte successivamente alla sua entrata in vigore,.. indipendentemente dall’applicabilità delle disposizioni sostanziali contenute nelle legge. 24/2017”.  (cfr. Trib. Venezia, II sez. civ., ordinanza del 18 gennaio 2018).

Il Giudice competente.

Ulteriore problematica, diremmo ormai pacificamente superata, è quella della individuazione del Giudice competente;  orbene a differenza di quanto previsto per l’accertamento tecnico preventivo disciplinato dall’art. 696 c.p.c. che espressamente rimanda alla competenza del “Presidente del Tribunale”, la consulenza preventiva ex artt. 696 bis cpc ed 8 l. 24/2017 va coltivata innanzi “ al Giudice competente “, norma questa che va letta con la disposizione successiva a tenore della quale il successivo ricorso ex art. 702 bis cpc (giudizio sommario) andrà depositato “presso il Giudice che ha trattato il procedimento” di consulenza tecnica preventiva.

La ratio della legge è chiara ed è centrata intorno ad un profilo essenzialmente acceleratorio tale per cui di fatto, “il rito della colpa medica” assume una sorta di struttura bifasica (consulenza tecnica prima e giudizio di merito poi) davanti al medesimo Giudice.

E’ da segnalare, al riguardo, la prassi virtuosa del Tribunale di Torino ove la competenza tabellare è ripartita in modo tale per cui soltanto la Sezione IV Civile tratta la materia della responsabilità sanitaria, e soprattutto è lo stesso Giudice (persona fisica) che ha diretto la fase preliminare dell’accertamento tecnico preventivo a dover dirigere la successiva fase di merito; il meccanismo consente in tal modo al Giudice che ha già conosciuto la controversia nei suoi aspetti preliminari (Consulenza) di vagliare, coerentemente, egli stesso la causa nel merito, con una evidente velocizzazione del processo.      

Le parti chiamate allo interno del procedimento di CTU preventiva.                

Maggiormente controversa si appalesa invece la seconda questione sollevata dalla neo introdotta ATP e relativa all’individuazione delle parti chiamate a partecipare al procedimento di consulenza tecnica preventiva. Ebbene, sul punto, e a distanza di poco più di un anno dall’emanazione della legge Gelli-Bianco, si sono già sviluppati due orientamenti giurisprudenziali contrapposti.

Secondo un primo orientamento, prevalente in dottrina, l’individuazione delle parti chiamate a partecipare al procedimento di ATP dipende dal tipo di azione di merito che il danneggiato intende esperire.

Pertanto se essa si dovesse fondare sull’art. 7, il giudizio dovrebbe essere promosso nei confronti della struttura sanitaria o dell’esercente la professione sanitaria o di entrambi. Se l’azione risarcitoria avesse carattere diretto, come consente il nuovo art. 12, legittimata passiva sarebbe anche la compagnia assicuratrice dell’una o dell’altro. In altre parole, il litisconsorzio previsto all'art. 12 per l’ipotesi della neo introdotta azione diretta nei confronti dell’assicurazione e per estensione anche di ricorso per ATP ha carattere processuale ed unilaterale   nel senso che mentre la partecipazione al giudizio del responsabile del danno è necessaria quando il danneggiato proponga azione diretta nei confronti dell'assicuratore, ove questi eserciti l'azione nei confronti del danneggiante senza citare l'assicuratore, quest’ultimo non assume la veste di litisconsorte necessario e potrà quindi essere estromesso.

Tale premessa comporta che, poiché le disposizioni di cui all’azione diretta nei confronti dell’assicurazione si applicano, ai sensi del comma 6 dell’art. 12, a decorrere dall’entrata in vigore del decreto ministeriale che dovrà essere emanato (entro 120 giorni) a norma dell’art. 10, comma 6 (ove devono essere dettati requisiti minimi sulle polizze assicurative), fino a quando non verrà approvato tale decreto il danneggiato potrà convenire nell’ATP solo la struttura sanitaria o il professionista sanitario (in giurisprudenza per tale soluzione si vedano: Trib. Venezia, sez. II civile, 11 settembre 2017; Trib. Padova, sez. ricorsi, 27 novembre 2017 in www. De iure.it portale ridare).

A questo indirizzo se ne contrappone un altro, reso dal Tribunale di Venezia con la ordinanza del 18.1.2018 in apice indicata, (conforme anche Trib. Verona, sez. III civile, 31 gennaio 2018) che ha evidenziato, a ragione, come la necessità della partecipazione delle compagnie assicuratrici dell’ente ospedaliero o del professionista discenda sia dalla funzione conciliativa dell’istituto che dal dato normativo, che precisa come tali soggetti siano parti del procedimento e, per di più, quelle principalmente onerate della proposta conciliativa.

Il Tribunale di Venezia rinviene poi un ulteriore riscontro a tale ricostruzione nella clausola di salvezza con cui esordisce l’art. 12 che fa espressamente «salve le disposizioni dell’articolo 8».

A conforto delle conclusioni cui giunge il giudice lagunare militano ulteriori considerazioni. Invero, la possibilità di coinvolgere già nell’ATP le compagnie di assicurazione consente, anche sotto il profilo funzionale, di meglio perseguire la finalità conciliativa che caratterizza l’istituto e che vale a contraddistinguerlo, sotto tale profilo, dalla mediazione, che pure può essere esperita in alternativa all’ATP, ai sensi del comma 2 dell’art. 8, ma nella quale le compagnie di assicurazione raramente vengono coinvolte (si tratta per lo più delle ipotesi in cui vi sia controversia sul rapporto assicurativo o in cui il giudice demandi la mediazione anche su di esso).[21]

Ancora, va considerato che l’insuccesso registrato dall’istituto della mediazione obbligatoria in materia di medmal, è stato influenzato, a parere di chi scrive, principalmente nella NON obbligatoria presenza (litisconsorzio necessario) in mediazione di tutte le parti processuali che ruotano intorno all’evento lesivo (danneggiato, medico, struttura sanitaria, e compagnia di assicurazione). Si segnala ancora, che la obbligatoria presenza delle parti, prevista dalla legge sulla mediazione (dec. Legsl. 28/2010) è stata in un certo senso edulcorata dalla S.C. la quale in un recente arresto (cfr. Cass., 27.3.2019, n. 8473) se da un lato ha riaffermato la presenza obbligatoria della parte in mediazione, ha però consentito che la assenza della parte litigante può essere “surrogata”  dalla presenza del Difensore, che in questo caso dovrà esser munito di procura speciale notarile. La indicata procura NON potrà  essere autenticata dall’avvocato “perché il conferimento del potere di partecipare in sua sostituzione alla mediazione, non fa parte dei possibili contenuti della procura alle liti autenticabili direttamente dal difensore “. 

Il vaglio di ammissibilità della consulenza tecnica preventiva da parte del Giudice.    

Il punto da cui partire è quello secondo cui, anche allo interno del procedimento ex art. 8 Legge Gelli, occorre in ogni caso rispettare il principio della specificità della allegazione, da parte del ricorrente, dell’inadempimento qualificato (del Sanitario ed ora della Struttura), astrattamente idoneo a causare il danno lamentato  ( i concetti sono stati ripresi al paragrafo 1 e seg.), in altre parole se è pure vero che la consulenza ex art. 8 legge Gelli costituisce condizione di procedibilità obbligatoria (non esclusiva ma in via alternata con la mediazione),  è anche vero che essa 8la Consulenza) viene coltivata o in funzione conciliativa (come il sistema propugna) o in funzione di istruzione preventiva rispetto al giudizio di merito. Ne consegue che il ricorso dovrà fornire quegli elementi fattuali e tecnici rispetto al quale, in primis, il Giudice può essere in grado di formulare il quesito, ed in secundis, il consulente possa fornire le proprie valutazioni.

Se allora, per come formulato, il ricorso non consenta al Giudice di formulare il quesito ed al CTU di rendere la propria valutazione, il ricorso dovrà essere dichiarato inammissibile (senza che però questo impedisca la riproposizione dello stesso in maniera più puntuale).

Il quesito peritale dovrebbe essere caratterizzato sempre da una prima parte cd. di “premessa” riepilogativa della allegazioni delle parti (doglianze del ricorrente e difese del resistente) e dei terzi chiamati, anche tenendo conto delle perizie di parte allegate e dei documenti prodotti, in tal modo delineandosi il campo del contendere.

Una seconda parte cd. “introduttiva a carattere processuale” con la indicazione del conferimento dei poteri al CTU ex art. 194 c.p.c. e con indicazione espressa dei parametri valutativi cui fa riferimento l’art. 5 della legge n. 24/2017 (linee guida e buone pratiche vigenti al momento del fatto dannoso) ; ad esempio : << esamini il CTU gli atti di causa, prenda  visione della documentazione prodotta dalle parti, visiti la signora tal dei tali, senta le parti ed i loro Consulenti, ed all’esito di ciò risponda in maniera analitica e con numerico riferimento ai quesiti che seguono, (accertamento del nesso causale e del quantum debeatur [invalidità temporanea totale/assoluta, anche in regime ospedaliero, e parziale/relativa, e de ldanno permanente biologico nella misura percentuale, rimandando alla applicazione della tabella milanese ) previa sintetica illustrazione dei dati anamnestici e tenendo conto delle linee guida vigenti e delle buone pratiche clinico assistenziali accreditate dalla comunità scientifica esistenti al momento del fatto contestato, fatte salve le specificità del caso concreto che in tal caso dovranno essere espressamente menzionate  >>.

Una terza parte che preveda l’espresso inserimento sia dell’inciso “tentata la conciliazione tra le parti “ che soprattutto quello secondo cui : “” indicate nella relazione peritale le ragioni per cui le parti non sono addivenute alla conciliazione “”.  Al riguardo l’art.8 della Legge Gelli, rimanda all’art. 696 bis cpc che espressamente prevede : “” il consulente, prima di provvedere al deposito della relazione, tenta ove possibile, la conciliazione tra le parti “”.     

Il consulente dovrà, come detto, in caso di esito negativo, nella propria relazione chiarire le ragioni che hanno impedito la conciliazione, anche eventualmente indicando i punti in cui la conciliazione si sarebbe potuta raggiungere, se non vi fossero state di ostacolo altre ragioni, in ogni caso da indicare. 

Con riguardo al profilo strettamente processuale, saremmo dell’opinione che, a differenza della consulenza tecnica espletata in corso di causa, (ove maturano le preclusioni ex art. 183 comma sesto cpc) nella consulenza ex art. Legge Gelli non vi sono preclusioni, salvo ovviamente la tutela del contraddittorio e “della parità delle armi”.

Siamo del parere ancora che la scansione processuale potrebbe essere caratterizzata da una prima udienza di comparizione delle parti principali della procedura (ricorrente e resistente), funzionale ad ottenere la eventuale estensione del contraddittorio all’esito dell’interrogatorio delle parti, la individuazione del perimetro dei quesiti, la esatta individuazione della corretta specializzazione dei consulenti da nominare nel Collegio (ricordiamo la coppia dei CTU) ,ed una seconda udienza funzionale ad avere la presenza dei CTU cui conferire i quesiti; va esclusa la fissazione di una terza udienza funzionale ad esaminare il contenuto della relazione peritale.

In applicazione del disposto dell’art. 92 disp. attuazione del codice di rito, sarà sempre possibile chiedere al Giudice la fissazione di una udienza “straordinaria” per dirimere questioni procedurali sorte durante il procedimento di accertamento tecnico preventivo.                         

Le parti. La nuova Legge “sanitaria”, nel prevedere la presenza obbligatoria di tutte le parti nel procedimento per ATP, consentirà – ci si augura - un “miglioramento” delle statistiche relative alla soluzione transattiva delle liti, proprio in considerazione del fatto che la presenza dell’Assicuratore all’interno del procedimento pre-contenzioso, possa consentire alla Compagnia di prendere immediata ed esatta “visione” del tipo del contendere e così poter giungere ad una  “chiusura” bonaria della lite.

Ancora, non va trascurato che il danneggiato sarà indotto a convenire nella procedura stragiudiziale tutti i potenziali soggetti passivi della azione risarcitoria dalla peculiare disciplina in tema di spese che è contenuta nel comma 4 dell’art. 8.

Il comma quarto della norma in commento.

Tale disposizione prevede, come conseguenza della mancata partecipazione all’ATP, la condanna, con il provvedimento che definisce il successivo giudizio (l’uso del tempo indicativo presente induce ad escludere qualsiasi discrezionalità del giudice al riguardo), della parte, pur vittoriosa, che abbia disatteso la prescrizione normativa al pagamento delle spese di consulenza e di assistenza legale, relative sia al procedimento di ATP che a quello di merito (non anche però le spese dei successivi gradi di giudizio), oltre che di una pena pecuniaria,  che, si noti non è quantificata né nel minimo né nel massimo, a vantaggio di tutte le altre parti cha abbiano invece partecipato al procedimento.

Invero, l’indicato art. 8, al comma 4°, prevede che:

«la partecipazione al procedimento di consulenza tecnica preventiva di cui al presente articolo, effettuata secondo il disposto dell’articolo 15 della presente legge, è obbligatoria per tutte le parti, comprese le imprese di assicurazione di cui all’art. 10, che hanno l’obbligo di formulare l’offerta di risarcimento del danno ovvero comunicare i motivi per cui ritengono di non formularla. In caso di sentenza a favore del danneggiato, quando l’impresa di assicurazione non ha formulato l’offerta di risarcimento nell’ambito del procedimento di consulenza tecnica preventiva di cui ai commi precedenti il giudice trasmette copia della sentenza all’istituto per la vigilanza sulle assicurazioni (IVASS) per gli adempimenti di propria competenza. In caso di mancata partecipazione, il giudice, con il provvedimento che definisce il giudizio, condanna le parti che non hanno partecipato al pagamento delle spese di consulenza e di lite, indipendentemente dall’esito del giudizio, oltre che ad una pena pecuniaria, determinata equitativamente, in favore della parte che è comparsa alla conciliazione».   

Anche in questo caso sono necessarie alcune osservazioni.

La disposizione normativa in commento, ricalca in buona sostanza il meccanismo di cui all’art. 148 del Codice delle assicurazioni anche se i due “settori” non sono totalmente sovrapponibili (ad es. l’art. 10 della legge Gelli NON prevede l’obbligo per le strutture sanitarie di dotarsi di una assicurazione obbligatoria visto che l’art. 10 prevede la possibilità di servirsi di  “” analoghe misure per la copertura della responsabilità civile” rispetto a quella di stipulare contratti assicurativi).  

Ma soprattutto appare sperequato il meccanismo “punitivo” previsto per la Compagnia di Assicurazione che non partecipa alla ATP (pena pecuniaria) rispetto alla Compagnia che non compaia nel procedimento di mediazione visto che in questa ultima ipotesi “l’inadempimento” è sanzionato con un “versamento all’entrata del bilancio dello stato di una somma di importo corrispondente al contributo unificato dovuto per il giudizio” (art. 8 comma 4 bis dlgs. N. 28/2010), ma non certo con una “pena pecuniaria determinata equitativamente”.

Insomma ci troviamo innanzi ad una evidente disparità di trattamento verso le Compagnia di Assicurazioni ingiustificabile tra chi abbia scelto di attivarsi mediante la procedura di mediazione e chi abbia optato per il procedimento per ATP.

La difformità della disciplina è da ricercarsi nella circostanza che l’art. 8 in commento era calibrato sull’ATP e non è stato riformulato all’esito dell’introduzione, nell’ultima versione parlamentare dell’impianto normativo, dell’alternativa della mediazione.

Una qualche osservazione va svolta con riferimento al comma terzo della norma in commento che, come noto, disciplina l’ipotesi di fallimento del tentativo di conciliazione.

Ebbene, il comma 3 dell’art. 8 prevede che ove la conciliazione non riesca o il procedimento non si concluda entro il termine perentorio di sei mesi dal deposito del ricorso, la domanda diviene procedibile e gli effetti della domanda sono salvi se, entro novanta giorni dal deposito della relazione o dalla scadenza del termine perentorio, è depositato, presso il giudice che ha trattato il procedimento di cui al comma 1, il ricorso di cui all’art. 702-bis c.p.c.

Il carattere di perentorietà attribuito ad un termine per lo svolgimento di un'attività lato sensu processuale appare a mio parere fortemente problematica. Se, infatti, è evidente la ratio acceleratoria della disposizione, occorre considerare che il termine di sei mesi, seppur non ridottissimo, potrebbe comunque risultare non adeguato nelle ipotesi maggiormente complesse sia da un punto di vista medico legale  che da un punto di vista procedurale, come si è detto, per il numero di soggetti coinvolti. Dall’altro assai dubbie risultano essere le conseguenze che l'inosservanza del succitato termine perentorio può comportare.

Taluni hanno, infatti, affermato che in caso di violazione del termine perentorio la conseguenza non potrà che essere quella della inutilizzabilità nel  successivo giudizio degli accertamenti che dovessero essere espletati dopo la scadenza del predetto termine e a fortiori della relazione che fosse stata depositata dopo quel momento 

 In tale ottica dunque il giudice del giudizio di merito sarà tenuto a rinnovare quelle attività, con conseguente ritardo e aggravio di costi.

Altri (M.RUVOLO E S.CIARDO, Approvata la nuova Legge sulla responsabilità sanitaria, cosa cambia?, in questionegiustizia.it), invece, partendo dal dato testuale della norma affermano che l’unica conseguenza connessa al mancato rispetto del termine perentorio di sei mesi è che l’attore potrà ritenere munita di procedibilità la sua domanda e instaurare o continuare il giudizio  mentre l'attività svolta seppur tardivamente nell'ambito dell'accertamento tecnico tra le medesime parti potrà comunque essere utilizzata nel successivo giudizio di merito.

A mio parere tale ultima soluzione appare preferibile in ossequio ad un principio generale di economia processuale benché imponga una forzatura  del concetto di perentorietà del termine.

Come detto, dunque, il comma terzo della norma in commento prevede, che in caso di esito negativo della conciliazione il danneggiato proceda nel merito con il procedimento sommario ex art. 702-bis c.p.c.. che dovrebbe garantire una maggiore celerità.

Vi è tuttavia il dubbio se le controversie in oggetto debbano essere sempre e comunque trattate nell’ambito di procedimenti sommari di cognizione.

Sul punto occorre sottolineare che, se in un numero ridottissimo di casi, la causa di merito può essere decisa sulla sola base della CTU e dunque “l’abbinata consulenza preventiva- rito sommario” appare astrattamente idonea a realizzare il fine acceleratorio e deflattivo che le norme si prefiggono, nella maggior parte delle controversie in materia sanitaria in primo luogo vengono poste anche questioni che esulano dal tema affrontato dal consulente in via preventiva (si pensi al consenso informato, ai danni non patrimoniali diversi da quello biologico, ai danni parentali, danni patrimoniali) e che richiedono talvolta una istruttoria anche molto complessa, e dall’altro che l’ATP non assume in alcun modo carattere di definitività, non maturando in sede di procedimento ex art. 696-bis c.p.c. alcuna preclusione istruttoria.

I convenuti in sede di ricorso ex art. 702-bis c.p.c. ben potrebbero, dunque, produrre nuovi documenti ed articolare prove volte a contrastare le conclusioni raggiunte in sede di ATP. Come è stato peraltro sottolineato «la previsione in esame risulta anche irragionevole dal momento che parifica, ai fini della scelta del procedimento semplificato, l'ipotesi in cui vi sia stato il tempestivo deposito della relazione del CTU, e a fronte della quale si giustifica la scelta di un giudizio sommario, a quella in cui esso non sia avvenuto e occorra quindi un compiuto accertamento del quantum del danno» (M.VACCARI, L'ATP obbligatorio nelle controversie di risarcimento dei danni derivanti da responsabilità sanitaria, in Ridare.it).

Si ritiene, comunque che vada fatta salva la possibilità per il giudice, qualora ritenga che le difese svolte dalle parti richiedano un’istruzione non sommaria, di convertire il rito in quello ordinario. Va, infatti, evidenziato che l’art. 8 richiama espressamente l’applicabilità degli art. 702-bis e ss. c.p.c. e quindi deve intendersi richiamato anche l’art. 702-ter comma 3 c.p.c. che prevede il mutamento del rito.

Occorre, infine, sottolineare che la norma fa esplicitamente riferimento all’introduzione della domanda con il ricorso ex art. 702-bis c.p.c. solo in relazione all’ipotesi di assolvimento della condizione di procedibilità mediante ricorso alla consulenza preventiva a fini conciliativi e che, dunque, il danneggiato che ha scelto la mediazione ben potrebbe, invece, agire con il rito ordinario di cognizione senza peraltro essere tenuto a rispettare il termine di 90 giorni per la presentazione del ricorso. L’ultimo comma dell’art. 8, infatti, era calibrato sull’ATP e – come supra già detto - non è stato riformulato all’esito della introduzione, nell’ultima versione parlamentare dell’impianto normativo, dell’alternativa della mediazione .

Per quanto attiene al rilievo della improcedibilità, questa deve essere eccepita dal convenuto, a pena di decadenza, o rilevata d'ufficio dal giudice, non oltre la prima udienza. Il rilievo d’ufficio è, dunque, obbligatorio e non facoltativo anche in difetto di eccezione di parte. La norma prevede, inoltre, che quando il giudice rileva che il procedimento di cui all’art. 696-bis c.p.c. non sia stato espletato ovvero che sia iniziato ma non si sia concluso, e che quindi allo stato la domanda sia improcedibile, assegna alle parti il termine di 15 giorni per presentare dinanzi a sé l'istanza di consulenza tecnica in via preventiva ovvero di completamento del procedimento. In caso di inosservanza del termine assegnato per l’instaurazione o il completamento della procedura per ATP il Giudice provvederà, invece, con sentenza a dichiarare l’improcedibilità della domanda.

Una osservazione, seppur sintetica in questa Sede, và immediatamente sollecitata all’attenzione dei Lettori, cosa si intende con le parole “gli effetti della domanda sono salvi”?

Verosimilmente il legislatore intendeva riferirsi esclusivamente agli effetti della domanda sul termine di prescrizione e su quello di decadenza, atteso che “se gli effetti” riguardeassero anche l’effetto sostanziale (i.e. la perdita del diritto al risarcimento) ci troveremmo dinanzi ad una palese violazione della Carta Costituzionale (tutela del diritto alla salute).

La norma inoltre parlando di “assicurare” gli effetti della domanda lascia intendere che l’effetto interruttivo della prescrizione si verifichi sin dal deposito del ricorso per ATP (rectius notifica) salvo poi consolidarsi con la introduzione del giudizio nel termine di 90 giorni e che, dunque, laddove non venga rispettato tale termine tale effetto cadrebbe nel nulla. 

Quali vantaggi ha la mediazione rispetto all’ATP preventiva e quali l’ATP rispetto alla mediazione?

Giunti a questo punto della trattazione, appare interessante provare ad elencare i possibili vantaggi che possono portare a scegliere la mediazione rispetto a quelli che inducono a ritenere preferibile l'ATP.

Come già evidenziato supra, la nuova disciplina normativa sulla responsabilità sanitaria ha previsto che dopo l'espletamento dell'ATP le cause di merito debbano essere introdotte con il rito sommario di cognizione ai sensi dell'art. 702-bis c.p.c. . Tuttavia è stato anche osservato che  il necessario impiego della procedura di cui agli artt. 702-bis ss. c.p.c. sia da limitare al solo caso dell'ATP (e non della mediazione), e ciò lo si ricava dal fatto che l'art. 8 comma 3 del nuovo testo normativo prevede che il ricorso ex art. 702-bis c.p.c. vada depositato entro il termine di 90 giorni dal deposito della relazione medica o dalla scadenza del termine perentorio di 6 mesi per l'ultimazione dell'ATP (e ciò a pena di perdita di efficacia della domanda).

Dunque, nell'ipotesi in cui la condizione di procedibilità sia soddisfatta attraverso il ricorso alla mediazione il paziente-attore potrebbe conservare, in un'ottica di strategia difensiva, la possibilità di usufruire di due riti a scelta: il rito sommario di cognizione ovvero quello ordinario.

A parte quest'ultima ipotesi, però, i profili appena sopra evidenziati non sembrano tali da far pensare che verrà preferito lo strumento della mediazione rispetto a quello dell'accertamento tecnico preventivo (fatta eccezione per i casi in cui non occorre alcuna verifica scientifica, come ad esempio per le controversie relative al solo consenso informato).

È da ritenere che, dinanzi alla scelta se esperire la mediazione ovvero l'ATP, si tenderà  preferire quest'ultima, non soltanto perché la mediazione in materia di responsabilità medica non ha portato grandi risultati in assenza di un accertamento di natura tecnica, ma anche alla luce di due previsioni contenute nel nuovo testo normativo:

1) la previsione della partecipazione obbligatoria all'ATP per tutte le parti, comprese le imprese di assicurazione, che hanno pure l'obbligo di formulare l'offerta di risarcimento del danno ovvero di comunicare i motivi per cui ritengono di non formularla, con l'ulteriore previsione che in caso di sentenza a favore del danneggiato il giudice deve trasmettere copia della sentenza all'Istituto per la vigilanza sulle assicurazioni (IVASS) per gli adempimenti di propria competenza nei casi in cui l'impresa di assicurazione non abbia formulato l'offerta di risarcimento nell'ambito dell'ATP;

2) la previsione della necessaria condanna, in seno al provvedimento che definisce il giudizio, delle parti che non abbiano partecipato all'ATP al pagamento delle spese di consulenza e di lite, indipendentemente dall'esito del giudizio, oltre che ad una pena pecuniaria, determinata equitativamente (e senza limiti minimi o massimi predeterminati dal legislatore), in favore della parte che è comparsa (che non necessariamente è il solo ricorrente, potendosi quindi avere anche una condanna in favore di più parti comparse).

Questa seconda previsione, ovviamente finalizzata a tentare di agevolare il buon esito della conciliazione tramite la sollecitazione della comparizione delle parti, va ben oltre l'attuale disciplina (contenuta nel d.lgs. 28/2010) della condanna al semplice pagamento di una somma pari al contributo unificato per la parte che non compare, peraltro senza giustificato motivo, al procedimento di mediazione.

L'attore, quindi, probabilmente preferirà l'ATP in quanto sa che anche nel giudizio di merito sarebbe comunque nominato un consulente d'ufficio, sa che le sue controparti molto probabilmente si costituiranno nel procedimento ex art. 696-bisc.p.c., sa che probabilmente la Compagnia di Assicurazione formulerà una proposta risarcitoria in seguito all'eventuale riconoscimento di responsabilità sanitaria da parte del CTU e sa che, in caso di rigetto della sua domanda, potrebbe pure vedersi rimborsate le spese di lite e di CTU (ed avere anche una somma ulteriore) qualora una delle sue controparti non dovesse partecipare all'ATP. Inoltre, sa pure che tale condanna è obbligatoria e non discrezionale (prevedendo l'art. 8 comma 4 l. n. 24/2017 che il giudice “condanna” e non che egli “può condannare”) e non richiede neppure che chi giudica valuti se questa mancata partecipazione sia o meno giustificata (non essendo richiesto questo tipo di accertamento, a differenza di quanto accade per la mediazione). Né l'attore rischia che i tempi si allunghino eccessivamente in quanto il testo normativo prevede un termine massimo di durata del procedimento di sei mesi (e quindi di poco più lungo di quello di tre mesi contemplato per la mediazione).

 

 

 

 

 

   L’attore deve

   scegliere tra

MEDIAZIONE CIVILE (ART 5. CO 1 BIS DLGS 28/2010)

 

                                                   

 

 

 

 

    Il convenuto

Eccepire l’improcedibilità a pena di decadenza non oltre la prima udienza.

 

 

 

 

 

 

  1. COMMENTO ART. NOVE: L’AZIONE DI RIVALSA

(a cura dell’Avv. Vincenzo Ruggiero).

L’articolo in commento rappresenta, forse, un altro dei momenti più caratterizzanti la riforma; esso sembrerebbe di immediata applicazione atteso che non necessita di norme attuative amministrative o regolamentari, e tocca profili procedurali oltre che sostanziali di rilievo.

Elemento caratterizzante la nuova disposizione è il fatto che l’articolo pone importanti limiti all’azione di rivalsa verso l’esercente la professione sanitaria, e ciò sia che esso sia un dipendente della sanità pubblica sia che esso sia un dipendente della sanità privata.

In prima battuta occorrerà tenere a mente che la norma consente l’azione di rivalsa solo in presenza di colpa grave[22] o dolo dell’esercente la professione sanitaria.  

Occorrerà notare che il limite varrà tanto per l’ente sanitario che agisca in rivalsa che per l’assicuratore che, pagando il danno, si sia surrogato.  

Importante sarà ricordare il limite temporale nell’esercizio dell’azione di rivalsa, atteso che l’azione ed il diritto (si parla di decadenza) verrà meno qualora non esercitato entro un anno dall’avvenuto pagamento al danneggiato, tanto su sentenza quanto su transazione. [23]

Non solo; il legislatore introduce un secondo limite, questa volta di natura quantitativa economica, atteso che (commi 5 e 6) la misura della rivalsa non potrà superare, in caso di colpa grave, il triplo della retribuzione lorda annua dell’esercente la professione oggetto della rivalsa stessa.  

La legge Lorenzin ha però introdotto modifiche anche con riguardo a tale aspetto della legge Gelli; più nello specifico rispetto alla Legge Gelli si stabilisce che l’importo della condanna non possa superare il triplo del valore maggiore della retribuzione lorda o del corrispettivo convenzionale conseguiti nell’anno di inizio della condotta causa dell’evento o nell’anno immediatamente precedente o successivo.

Il testo della Legge Lorenzin modifica, inoltre, il limite della misura della rivalsa e della surrogazione richiesta dall’impresa di assicurazione. Le novità riguardano il caso di accoglimento della domanda proposta dal paziente nei confronti della struttura sanitaria o sociosanitaria privata o nei confronti dell’impresa di assicurazione titolare di polizza con la medesima struttura.

Il limite, per singolo evento e in caso di colpa grave, viene fissato nel triplo del valore maggiore del reddito professionale, compresa la retribuzione lorda. Il reddito è quello conseguito nell’anno di inizio della condotta causa dell’evento o nell’anno immediatamente precedente o successivo.

L’art. 9 n. 5 [24]della Gelli ora in commento stabilisce poi la giurisdizione esclusiva della Corte dei Conti con riguardo all’azione da responsabilità erariale per dolo o colpa grave contro l’esercente dipendente della struttura pubblica.

Tale norma è superflua in quanto anche in sua mancanza l’azione di responsabilità contabile verrebbe esercitata dal Pubblico Ministero presso la Corte dei Conti.   

Occorre, invece, chiarire se il solo legittimato a rivalersi per colpa grave nei confronti del medico sia la Corte dei conti o anche la struttura sanitaria.

La prima stesura della legge prevedeva la legittimazione solo della ASL con l’esclusione della Corte dei Conti che invece, nella stesura definitiva della legge, è stata inserita tra i soggetti legittimati a rivalersi nei confronti del medico con l’azione di responsabilità amministrativa, ma senza privare l’Asl della facoltà di azionare il regresso, entro il termine di decadenza di un anno dal pagamento, nei confronti del medico sia pure per dolo o colpa grave. Tale azione è subordinata ad altro termine di decadenza previsto dall’art. 13 [25].

Quindi la struttura sanitaria, anche nel caso in cui non azioni il regresso nei confronti del medico deve adottare tempestivamente tutte le misure previste dal citato art. 13 al fine di consentire l’azione di responsabilità amministrativa da parte della Corte dei conti, incorrendo, altrimenti, a sua volta, in responsabilità contabile per avere reso inammissibile l’azione di responsabilità contabile nei confronti del medico.

Il secondo alinea dell’art. 13 prevede, ai fini della quantificazione dell’obbligo di tenere conto delle situazioni di fatto di particolare difficoltà, anche di natura organizzativa, della struttura sanitaria o sociosanitaria pubblica, in cui l’esercente la professione medica ha operato.

Anche in mancanza di tale normativa ben avrebbe potuto la Corte dei conti diminuire il risarcimento, in forza del suo potere riduttivo, tenendo conto delle medesime situazioni previste dalla legge, fermo restando, comunque, il limite costituito dal triplo della retribuzione lorda annuale del medico (€. 180 mila).

Con riguardo alla individuazione del concetto di colpa riferibile alla responsabilità contabile dei sanitari essa si manifesta con la mancanza di quelle cautele, cure o conoscenze costituenti lo standard minimo di diligenza richiesto a quel determinato professionista e, comunque, in presenza di ogni latra imprudenza che dimostri superficialità à e disinteresse per i beni primari affidati alle loro cure; la colpa grave deve essere valutata con tanto maggiore rigore, quanto maggiori e più elevate siano le funzioni e la qualificazione professionale dell’agente.     

La colpa grave consiste nella mancanza di diligenza, violazione di disposizioni di legge, sprezzante trascuratezza dei propri doveri, non osservanza del minimo di diligenza richiesta rispetto alle mansioni, agli obblighi e doveri di servizio.

Deve, quindi, trattarsi di errori inescusabili per la loro grossolanità, assenza di cognizioni fondamentali, difetto minimo di perizia tecnica, esperienza e capacità professionale.[26]

Si è ad esempio affermato che è connotata da colpa grave la condotta omissiva del medico ( aiuto primario) che, in caso di urgenza, in possesso della qualifica professionale non proceda all’intervento chirurgico richiesto, o lo esegua con colposo ritardo, in quanto il medico non può restare inerte, sia pure in attesa del primario, in quanto è titolare di un’autonoma posizione di garanzia nei confronti del paziente.

Sussiste anche responsabilità contabile per la omessa visita domiciliare in mancanza di validi e giustificati motivi.

Può essere, inoltre, ravvisato profilo di colpa grave, in presenza di telefonata allarmata descrivente la presenza di un bimbo di otto anni con sintomi oggettivamente grave (febbre alta persistente e resistente agli antipiretici, macchie scure in rapida estensione, scariche diarroiche, difficoltà crescente di respirazione e incapacità a reggersi in piedi), nel comportamento del medico che si rifiuti di effettuare la richiesta visita domiciliare cui è tenuto per dovere d’ufficio[27]       

***

Sul piano pratico ritengo che la norma potrà produrre un impatto sulla “costruzione” del prodotto assicurativo a favore dei medici (soggetti a rivalsa nei limiti di tempo e di quantum); ovviamente ciò non varrà allorquando il danneggiato decida di agire con azione diretta contro l’azienda sanitaria e contro il medico venendo così a mancare i limiti di cui ora si è detto.

In ogni caso l’Assicuratore, dopo avere risarcito il danno e dunque pagato, dovrà destreggiarsi in una serie di procedimenti “recuperatori” di varia natura e con diverse modalità operative: l’assicuratore solvens potrà dunque trovarsi ad agire contro il medico responsabile in surroga e dopo aver risarcito il danno nei limiti della disposizione in commento (il triplo della retribuzione lorda annua);  contro altri coassicuratori nell’ipotesi di applicazione del riparto ex art. 1910 c.c.; contro l’azienda stessa per la quota di scoperto di polizza non opponibile al danneggiato ex art. 12 della legge di riforma. Potrebbe agire infine, senza la limitazione quantificatoria, allorquando il danneggiato abbia agito in via diretta sia contro il medico che contro l’assicuratore ma solo in presenza di colpa grave o dolo commesso dal medico od esercente sanitario.

I commi tre, quattro, e sette.

3. La decisione pronunciata nel giudizio promosso contro la struttura sanitaria o sociosanitaria o contro l’impresa di assicurazione non fa stato nel giudizio di rivalsa se l’esercente la professione sanitaria non è stato parte del giudizio. 

4.In nessun caso la transazione è opponibile all’esercente la professione sanitaria nel giudizio di rivalsa.

7.Nel giudizio di rivalsa ed in quello di responsabilità amministrativa il giudice può desumere argomenti di prova dalle prove assunte nel giudizio instaurato dal danneggiato nei confronti della struttura sanitaria o sociosanitaria o dall’impresa di assicurazione se l’esercente la professione sanitaria ne è stato parte. “”.  

Si tratta, ancora una volta, di un meccanismo creato a tutela del sanitario soprattutto allorquando viene sancito il principio, per altro ovvio in ambito processuale, della NON opponibilità della sentenza o della transazione al medico operatore, allorquando egli NON sia stato parte né di quel giudizio né di quella transazione.

Il comma sette però stabilisce, che nel giudizio di rivalsa contro il medico, il Giudice potrà attingere argomenti di prova rispetto al quadro probatorio raccolto in quel processo ove il medico non era stato parte.

In presenza di questa ipotesi sono del parere che le risultanze istruttorie emergenti dall’elaborato peritale reso dal CTU medico legale allo interno del procedimento giudiziario civile instaurato dal danneggiato contro la struttura sanitaria ove il medico, successivamente convenuto in rivalsa, non era presente, debbano essere “lette” e dunque esaminate dal Giudice chiamato a decidere sull’azione di rivalsa, (coltivata dall’azienda o dall’assicuratore contro il medico ed incardinata “a valle” del primo giudizio) con particolare attenzione, ma direi, soprattutto, con spirito critico da parte dell’interprete;  voglio dire che se la CTU, svolta nell’ambito dell’azione civile intentata dal danneggiato contro la struttura sanitaria, in ogni caso verrà, per così dire, “influenzata” dalle regole che caratterizzano l’azione contrattuale tipica di questa azione (essenzialmente regime probatorio con inversione del relativo dell’onere posto a carico della struttura convenuta) forse quella medesima consulenza tecnica, così come svolta in quella sede e governata da quei principi (del contratto), non potrà essere traslata, sic et sempliciter nella collegata azione di rivalsa intentata contro il medico facendone, da essa, derivare gli stessi effetti in una sorta di automatismo quasi meccanico (riconoscimento della colpa e determinazione del danno) e ciò proprio in considerazione del diverso quadro giuridico, probatorio e causale che governa il risarcimento del danno richiesto al sanitario che, proprio in virtù della riforma Gelli, è ora retto dalle regole della responsabilità di natura extracontrattuale (i.d. individuazione del fatto colposo, prova del nesso di causa, determinazione del danno, elementi tutti posti a carico dell’attore); si potrà così giungere a conseguenze anche diverse ed ad esiti diversificati nei due giudizi anche sulla base della stessa consulenza tecnica di ufficio.

Il comma quinto – le limitazioni monetarie e quelle afferenti la progressione di carriera.  

La disposizione in parola disciplina il limite di condanna del sanitario, nell’ambito dell’azione di rivalsa esercitata dalla Procura della Corte dei Conti (danno erariale) ovvero (comma sesto) nell’ambito dell’azione di rivalsa esercitata dalla struttura privata o dal suo assicuratore. Il limite viene determinato nella misura che non potrà superare la somma pari al maggiore reddito lordo del professionista, o del corrispettivo convenzionale, tra quello percepito nell’anno dell’illecito e quello immediatamente precedente o successivo, moltiplicato per il triplo.

Occorre tenere a mente che il limite monetario indicato NON opera in presenza di azione svolta dal danneggiato contro il medico operatore sanitario libero professionista sia al di fuori che all’interno della struttura sanitaria, in questo caso l’azione di rivalsa fatta valere dalla struttura o dall’assicuratore sarà senza limitazioni di quantum debeatur.

Il comma quinto si chiude con una disposizione sanzionatoria per il sanitario dipendente pubblico che in presenza di una sentenza di condanna risarcitoria proposta dal danneggiato “ non potrà essere preposto ad incarichi professionali superiori rispetto a quelli ricoperti ed il giudicato costituisce oggetto di specifica valutazione da parte dei commissari nei pubblici concorsi per incarichi superiori”. 

La norma stabilisce questo periodo “di limbo” per i tre anni successivi decorrenti dal passaggio in giudicato della sentenza di natura risarcitoria resa in favore del danneggiato e non fa riferimento alla sentenza, così come sarebbe stato più logico, resa dalla Corte dei Conti.

     

  1. COMMENTO ART. DIECI: OBBLIGO DI ASSICURAZIONE

(a cura dell’Avv. Vincenzo Ruggiero).

L’art.10 della legge Gelli, per garantire la solvibilità della struttura sanitaria (pubblica o privata) e del medico, prevede l’obbligo di copertura assicurativa - con efficacia retroattiva - o di altre analoghe misure per la responsabilità civile verso terzi e per la responsabilità civile verso prestatori d’opera[28], anche per danni cagionati dal personale a qualunque titolo operante presso le strutture sanitarie o sociosanitarie pubbliche e private, compresi coloro che svolgono attività di formazione, aggiornamento, sperimentazione e ricerca clinica. L’obiettivo della norma è, chiaramente, quello di ridurre il ricorso alla cosiddetta “medicina difensiva” che ogni anno ha un impatto economico stimato del 10% del totale della spesa sanitaria (10 miliardi di euro circa) con un costo pro capite di 165 euro.

I dati, frutto di una ricerca condotta dalla AGENAS (agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali) svolta in 4 regioni: Marche, Umbria, Sicilia e Lombardia, hanno fatto emergere che il 58% dei medici intervistati dichiara di praticare la medicina difensiva. Tra le prestazioni più frequentemente utilizzate, in tema di medicina difensiva, troviamo: prescrizione di esami di laboratorio, prescrizione di esami strumentali, test diagnostici, prescrizioni di visite specialistiche e il non fornire cure potenzialmente efficaci ma ad alto rischio di complicanze.[29]

La norma, necessita di disposizioni di secondo livello aventi natura prettamente attuativa, uno tra tutti quello relativo alla determinazione dei requisiti minimi delle polizze assicurative già previste nella legge Balduzzi. 

La copertura dovrà dunque garantire tutte le ipotesi di responsabilità diretta della struttura nei confronti del paziente, ex art. 1218 e 1228 c.c. senza alcuna esclusione in relazione all’inquadramento dei soggetti in essa operanti e della natura dell’attività dagli stessi svolta.

Ma la norma stabilisce l’obbligo per la struttura di stipulare polizze assicurative o adottare altre analoghe misure per la copertura della responsabilità civile verso terzi degli esercenti le professioni sanitarie anche ai sensi e per gli effetti del comma 3 dell’articolo sette. Il legislatore continua dunque a far ricadere sulle strutture sanitarie e sociosanitarie anche il costo delle coperture assicurative per garantire la responsabilità civile “personale” degli esercenti la professione sanitaria che operino all’interno delle stesse senza alcun rapporto contrattuale diretto con il paziente.  

Tale obbligo potrà essere “surrogato” con l’adozione di “altre analoghe misure”.

 

 

La scelta di ricorrere alla garanzia assicurativa ovvero di affidarsi ad una soluzione alternativa (leggi predisposizione di riserve) resterà dunque una valutazione gestoria della struttura stessa, probabilmente questa valutazione potrà essere influenzata dal tasso di pregressa sinistrosità della struttura. La quale potrà influenzare la qualità dell’offerta assicurativa, rendendo più vantaggioso il ricorso ad una gestione interna dei sinistri.

Il comma due dell’articolo in commento stabilisce un autonomo obbligo assicurativo a carico dell’operatore sanitario che operi allo interno della struttura sanitaria e ciò anche allorquando costui renda una specifica obbligazione contrattuale assunta direttamente con il paziente.

In altre parole tutti i professionisti sanitari sono obbligati a stipulare, con oneri a proprio carico, una copertura di responsabilità civile che li tenga indenni dalle rivalse che dovessero ricevere in ragione di esborsi sostenuti dalla struttura, pubblica o privata, in ragione di un loro errore.

Ciò al fine, nelle manifeste intenzioni del legislatore, di garantire efficacia alle azioni di cui all’art. 9 e all’art. 12, comma 3. A questo proposito, il legislatore che sembra non aver voluto far mancare in numerosi articoli del testo di legge taluni punti oscuri introduce il riferimento all’art. 12 comma 3 che poco ha a che fare con le rivalse di cui all’art. 9.

Provo a chiarire ciò che comunque chiaro non è: sia la Corte dei Conti che la Compagnia di assicurazione che la struttura privata hanno diritto di rivalsa nei confronti del professionista che abbia commesso un errore che a sua volta abbia determinato un esborso della struttura ex art. 2049 c.c. o 1228 c.c.: ciascuna di tali rivalse avrà luogo in specifici contesti ovvero in caso di danno erariale per la Corte dei Conti, in caso di esborso della compagnia nel caso dell’art. 1916 c.c., in caso di pagamento da parte della struttura privata in assenza di copertura assicurativa nell’ipotesi della rivalsa ex art. 9.

Tutte queste ipotesi di rivalsa (per dolo o colpa grave) hanno come riferimento un soggetto terzo (il professionista sanitario) civilmente responsabile dell’esborso sostenuto per suo conto dal soggetto che si rivale: verso tale rischio il professionista sanitario è dunque obbligato ad assicurarsi onde evitare che tali azioni rimangono un mero sforzo processuale senza alcun ritorno economico effettivo.

Non appare chiaro, dunque, perché l’obbligo assicurativo del professionista debba anche riguardare un altro tipo di rivalsa, ovvero quella prevista dall’art. 12 in virtù della quale non c’è un regresso/surrogazione versus un responsabile civile, bensì una mera ripetizione dell’indebito allorché un assicuratore abbia pagato direttamente al terzo in ipotesi di scopertura assicurativa a lui non opponibile.

L’emanando Decreto ministeriale chiarirà quali saranno tali eccezioni non opponibili anche se, al momento, parrebbe di potersi dire che fra le stesse non rientra il massimale avendo il testo di legge chiarito che l’inopponibilità ha come limite l’intero massimale di polizza.

I professionisti di cui al comma 2 dell’art. 10 hanno ovviamente l’obbligo di stipulare in proprio anche una copertura per la responsabilità professionale personale non avendo la qualifica di assicurati nell’ambito della polizza sottoscritta dalla struttura.

L’obbligo assicurativo disciplinato dalla Legge Gelli – Bianco non fa che riaffermare lo stesso obbligo, fino ad oggi non attuato, previsto dalla legge n. 148 del 14 settembre 2011, e poi dalla legge Balduzzi e (quanto alle strutture) dal d.l. Madia (art. 27, comma 1 – bis, d.l. 9072014, convertito dalla l. 114/2014); la mancata attuazione è stata generata dalla assenza di una chiara normativa di secondo livello funzionale a dare attuazione al precetto. Anche la legge Balduzzi abbisognava, con riguardo sempre a tale profilo (obbligo assicurativo) di un dpr che disciplinasse le procedure ed i requisiti minimi ed uniformi per l’idoneità dei relativi contratti assicurativi, anche in questo caso la normativa di settore non è intervenuta.    

Sulla scorta di tali conclusioni in assenza di un decreto attuativo relativo ai requisiti minimi delle polizze di cui all’art. 10 comma 6, l’obbligo assicurativo disciplinato dal medesimo articolo, al comma 2, continuerà ad operare solo fittiziamente.

Le altre ed analoghe misure” continueranno, nel frattempo, ad essere proposte come valida alternativa alla “copertura assicurativa”, senza però una determinazione rigida dei principi attuativi.[30]

Il comma tre obbliga poi ciascun esercente la professione sanitaria operante a qualunque titolo in strutture sanitarie o sociosanitarie pubbliche o private alla stipula, con oneri a proprio carico, di dotazione di un’adeguata polizza di assicurazione per colpa grave.

Tale obbligo viene stabilito allo scopo di garantire l’efficacia delle azioni di cui all’art. 9 (rivalsa struttura ed assicuratore) ed all’art. 12 comma 3 (azione diretta del danneggiato).

Anche in questo caso si attende uno specifico decreto che definisca i requisiti minimi di questo tipo di polizze atteso che i prodotti attualmente sul mercato realizzano una copertura per l’azione di rivalsa esperita dalla struttura sanitaria pubblica in caso di sentenza della Corte dei Conti passata in giudicato che abbia riconosciuto la responsabilità dell’operatore per colpa grave.

Di contro la legge di riforma stabilisce che la polizza dovrà coprire l’esercente la professione sanitaria (anche) per le azioni di cui agli artt. 9 (rivalsa della struttura e surrogazione dell’assicuratore ex art. 1916, comma 1 c.c.) e 12 comma 3 (azione di rivalsa esperita nei confronti dell’assicurato dalla compagnia di assicurazione che abbia soddisfatto il paziente, per effetto dell’azione diretta prevista dall’art. 12, per le somme non coperte dalla polizza).    

Il comma quarto stabilisce che le strutture rendano nota, mediante pubblicazione nel proprio sito internet, la denominazione dell’impresa che presta la copertura assicurativa della responsabilità civile verso i terzi e verso i prestatori d’opera di cui al comma 1 dell’art. 10, indicando per esteso i contratti, le clausole assicurative ovvero le altre analoghe misure che determinano la copertura assicurativa.    

Occorrerà stabilire, con apposito decreto, come verranno “pubblicizzate” le condizioni di una soluzione alternativa alla copertura assicurativa (il tutto demandato ad un successivo decreto attuativo stabilito nel comma del medesimo articolo da emanarsi entro 120 giorni dalla data di entrata in vigore della legge [comma sei art. 10].

L’articolo undici munito di un comma unico stabilisce la ESTENSIONE della garanzia assicurativa che dovrà “prevedere una operatività temporale anche per gli eventi accaduti nei dieci anni antecedenti la conclusione del contratto assicurativo purchè denunciati all’impresa di assicurazione durante la vigenza temporale della polizza.”.    

Con questa disposizione il legislatore sembra riprendere il tema della clausola claims made[31] dopo la nota sentenza delle Sezioni Unite (Cass. civ., Sez. Un. n. 9140/2016[32]) aderendo di fatto all’interpretazione in tema di meritevolezza delle clausole cd “miste” scelta dalla Prima Sezione del Tribunale di Milano (Trib. Milano, 17 giugno 2016 n. 7149) che ha ritenuto meritevole di tutela la clausola claim mista con retroattività decennale. È pur vero che il termine “denunciati” non sembrerebbe far riferimento al claim bensì alla denuncia dell’assicurato, dunque altro lavoro interpretativo per le Corti.

In ogni caso la disposizione stabilisce che ciascuna polizza assicurativa, sia questa relativa alla struttura od al professionista sanitario, debba prevedere una retroattività di dieci anni ed una sunset di ulteriori dieci anni. In pratica saranno considerate valide tutte le denunce di sinistro (ma sarebbe più esatto parlare di richieste di risarcimento) presentate all’assicuratore durante il corso di validità della polizza, purchè relative ad eventi verificatisi entro il termine di dieci anni prima della decorrenza della polizza stessa.   

Nel caso di cessazione definitiva dell’attività professionale per qualsiasi causa deve essere previsto un periodo di ultrattività della copertura per le richieste di risarcimento presentate per la prima volta entro i dieci anni successivi e riferite a fatti generatori della responsabilità verificatisi nel periodo di efficacia della polizza, incluso il periodo di retroattività della copertura e ciò a protezione di eventuali eredi e senza possibilità di disdetta.

Appare logico leggere quest’ultima disposizione nel senso che analogo requisito sia previsto anche nelle coperture delle strutture in favore della responsabilità personale dei dipendenti e, perché no, in quelle delle strutture stesse ben potendo una clinica cessare la propria attività.

La riforma Gelli, nonostante l’introduzione di spunti e principi innovativi, appare davvero poco comprensibile soprattutto con riguardo alla parte assicurativa, in buona parte descritta all’art. 10.. La mancata volontà di affrontare temi scomodi come la ritenzione del rischio ed i criteri di riservazione della P.A. così come la successione fra coperture ed i problemi legati alla clausola claim made creano problemi interpretativi che si spera possano essere risolti in sede di emanazione del Decreto Ministeriale dello stesso art. 10 previsto.

L’approssimazione terminologica e la scarsa comprensione dei meccanismi di funzionamento del mercato assicurativo manifestata dal legislatore lasciano spazio a disequilibri e dubbi interpretativi dei quali si sarebbe probabilmente fatto a meno volentieri, al punto che sembra lecito chiedersi quale sia stato il senso di questo complesso elaborato normativo e quale l’utilità.

In ogni caso giova segnalare che l'importanza della copertura assicurativa nel mondo sanitario è stata ancor più di recente ribadita dalla riforma Lorenzin di fine 2017, che ha affidato nuovi compiti al Fondo di garanzia per i danni derivanti da responsabilità sanitaria, conferendogli l'ulteriore funzione di agevolare l'accesso alla copertura assicurativa da parte di coloro che svolgono una professione sanitaria in regime libero-professionale. 

 

 

  1. COMMENTO ART. DODICI: AZIONE DIRETTA NEI CONFRONTI DELLA COMPAGNIA DI ASSICURAZIONE DA PARTE DEL SOGGETTO DANNEGGIATO

(a cura dell’Avv. Vincenzo Ruggiero).

 

Se dunque l’obbligo assicurativo non costituisce una novità del DDL Gelli ma una miglior esplicitazione di quanto stabilito nel D.L. Balduzzi e dal D.L. Madia, oltreché prosecuzione naturale del percorso intrapreso dal legislatore sin dall’introduzione, nel 2011, dell’obbligo di assicurazione, a tutela del cliente, per tutti i professionisti, la novella introduce pure un sistema assicurativo  che completa il precedente quadro normativo con la previsione di istituti tipici della r.c. auto, quale appunto l’azione diretta nei confronti dell’impresa assicurativa e la regola dell’inopponibilità delle eccezioni contrattuale.[33]

Con l’azione diretta il paziente potrà chiamare direttamente in causa la Compagnia di Assicurazione della Struttura Sanitaria o del Medico che svolge la propria attività professionale nello studio privato. Quindi con l’Azione Diretta la Compagnia di Assicurazione non potrà eccepire motivi di mancata copertura assicurativa salvo che questi riguardino i requisiti minimi stabiliti per legge che dovranno avere le polizze professionali.

Si tratta di un modello assicurativo che ricalca il modello assicurativo per la R.C.A. sicchè i principali tratti comuni saranno i seguenti:

  1. azione diretta a favore del danneggiato il quale, diversamente da quanto avviene per le coperture ordinarie della responsabilità civile generale (art. 1917 c.c.) potrà rivolgersi direttamente all’impresa del responsabile civile;
  2. all’obbligo di queste ultime di liquidare il danno a favore del terzo danneggiato (nei limiti di quanto dovuto) senza sollevare eccezioni contrattuali, e cioè senza poter invocare ragioni di inoperatività della copertura fondate sul rapporto negoziale tra l’impresa della R.C. Auto ed il proprio cliente;
  3. alla previsione di procedure stragiudiziali vincolate, all’esito delle quali le imprese dovranno formulare al danneggiato una congrua offerta (ovvero una motivata reiezione della richiesta);
  4. l’istituzione di un Fondo di garanzia, volto a garantire al terzo la prestazione risarcitoria nei casi in cui il danno, per specifici motivi, individuati dalla legge, non trovi copertura assicurativa.

L’azione diretta, è bene chiarirlo, si pone su di un piano di complementarietà, e non di alternatività, rispetto all’azione ordinaria che il danneggiato potrà introdurre contro il responsabile civile.

Si applicheranno allora gli arresti giurisprudenziali o comunque gli approdi interpretativi maturati nell’ambito del risarcimento del danno da r.c.a. cosicchè trattandosi di obbligazioni solidali (quella della struttura e dell’assicuratore o quella del medico e dell’assicuratore) il pagamento effettuato da uno dei condebitori solidali ha l’effetto pienamente liberatorio e che “l’azione esperita contro l’assicuratore contiene implicitamente la domanda di accertamento della responsabilità del danneggiante “ (cfr. Cass. 15.9.1982, n. 4887).

Nel giudizio promosso contro l’assicuratore dell’azienda, struttura o ente, è litisconsorte necessario l’azienda, struttura o ente medesimo, mentre nel giudizio promosso contro la compagnia assicurativa dell’esercente la professione sanitaria è quest’ultimo ad essere litisconsorte necessario.

Tutte le parti in causa (assicurazione, esercente e danneggiato) hanno diritto di accesso alla documentazione della struttura sanitaria relativa ai fatti dedotti in ogni fase della  trattazione del sinistro. 

Il termine di prescrizione dell’azione diretta del danneggiato è uguale a quello dell’azione esercitata verso la struttura o l’esercente la professione sanitaria.

Condivido poi il pensiero di chi ha precisato però che: “ (…) l’azione diretta, per come disciplinata dall’art. 12, non può ovviamente essere esercitata nei confronti delle strutture che abbiano optato per il ricorso ad altre “analoghe misure”, diverse dalla garanzia assicurativa in senso proprio. In questo caso l’azione sarebbe, come dire, ontologicamente diretta, in quanto rivolta proprio al soggetto della cui responsabilità si tratta (la struttura appunto). “” [34] In questo caso, ritengo, che la sostenibilità dell’obbligo risarcitorio in capo alla struttura che ha deciso di servirsi di un sistema interno di “autoassicurazione” resterà affidata alla costituzione di fondi rischio e fondi di riserva destinatari a far fronte ai sinistri nel rispetto delle regole di cui agli artt. 2424 bis del codice civile.

In ogni caso l’azione diretta non sussisterà e non sarà applicabile allorquando il danneggiato intenda agire contro gli operatori sanitari ex art. 2043 c.c. ed in forza di quanto previsto dall’art. 7 comma 3; in tali casi la “copertura” in favore del danneggiato deriverà dalla polizza assicurativa che obbligatoriamente la struttura abbia stipulato in favore del proprio medico/operatore sanitario, normalmente di tipo collettivo ex art. 1891 c.c..        

In questo caso, l’operatore chiamato in giudizio dal danneggiato, dovrà immediatamente chiamare in causa il proprio assicuratore in conformità con quanto stabilito dall’art. 1917 c.c.

Il comma due dell’articolo in commento stabilisce infine, che non saranno opponibili al danneggiato, per l’intero massimale di polizza, le eccezioni derivanti dal contratto diverse da quelle stabilite dal decreto di cui all’articolo 10 comma sei che definisce i requisiti minimi delle polizze assicurative per le strutture sanitarie e sociosanitarie pubbliche e private.

Anche in questo caso occorrerà attendere i decreti attuativi che stabiliranno i parametri minimi del prodotto assicurativo.

Il comma terzo disciplina la rivalsa dell’assicuratore verso l’assicurato nel rispetto dei requisiti minimi, non derogabili contrattualmente, stabiliti dal decreto di cui all’articolo 10, comma 6.

Significa che l’assicuratore che non ha la possibilità di eccepire al danneggiato, che agisce in via diretta, le eccezioni derivanti dal contratto, ha diritto ad agire nei confronti del proprio assicurato in rivalsa riequilibrando così il sinallagma ed addebitando all’assicurato gli importi erogati a favore del danneggiato che non si sarebbero pagati laddove fosse stato possibile eccepire le limitazioni di polizza o le altre ragioni di inoperatività della copertura.  

Il comma quarto regolamenta la procedibilità dell’azione diretta, la liquidazione stragiudiziale ed il litiscosorzio.

La disciplina in discorso stabilisce che “nel giudizio promosso contro l’impresa di assicurazione della struttura sanitaria o sociosanitaria pubblica o privata a norma del comma 1 è litisconsorte necessario la struttura medesima, nel giudizio promosso contro l’impresa di assicurazione dell’esercente la professione sanitaria a norma del comma 1 è litisconsorte necessario l’esercente la professione sanitaria. L’impresa di assicurazione, l’esercente la professione sanitaria e il danneggiato hanno diritto di accesso alla documentazione della struttura relativa ai fatti dedotti in ogni fase della trattazione del sinistro”.

Si è visto in precedenza che l’avvio del processo civile sconti delle condizioni di procedibilità dell’azione che si realizzano o al procedimento di mediazione o alla procedura ex art. 696 bis cpc.

La ratio del litisconsortio necessario viene individuata nell’esigenza di “assicurare che l’esistenza della responsabilità sia accertata in contraddittorio con il responsabile del danno” .

 

 

 

 

 

 

 

 

 

  1.  COMMENTO ART. TREDICI:                                                                                  OBBLIGO DI COMUNICAZIONE                                                              ALL’ESERCENTE LA PROFESSIONE SANITARIA                                                                                                                         DEL GIUDIZIO BASATO SULLA SUA RESPONSABILITA’                                                       (a cura dell’Avv. Vincenzo Ruggiero).

          

La disposizione in parola così recita: “le strutture sanitarie e sociosanitarie di cui all’art. 7, comma 1, e le imprese di assicurazione che prestano la copertura assicurativa nei confronti dei soggetti di cui all’art. 10 commi 1 e 2, comunicano all’esercente la professione sanitaria l’instaurazione del giudizio promosso nei loro confronti dal danneggiato, entro dieci giorni dalla ricezione della notifica dell’atto introduttivo, mediante posta elettronica certificata o lettera raccomandata con avviso di ricevimento contenente copia dell’atto introduttivo del giudizio. Le strutture sanitarie e sociosanitarie e le imprese di assicurazione entro dieci giorni comunicano all’esercente la professione saniaria, mediante posta elettronica certificata o lettera raccomandata con avviso di ricevimento l’avvio di trattative stragiudiziali con il danneggiato con invito a prendervi parte, L’omissione, la tardività o l’incompletezza delle comunicazioni di cui al presente comma preclude l’ammissibilità delle azioni di rivalsa o di responsabilità amministrativa di cui all’articolo 9. “.

Occorre segnalare che con la legge cd. Lorenzin del febbraio di quest’anno il termine dei dieci giorni è stato portato a quarantacinque. 

Occorrerà allora che le strutture sanitarie e le imprese di assicurazione comunichino all’operatore sanitario la instaurazione di un giudizio incardinato con l’azienda o contro l’impresa per fatti lesivi riconducibili alla condotta tenuta dal professionista; analoga comunicazione i soggetti in parola saranno a svolgere in presenza di trattative stragiudiziali avviate al fine di chiudere bonariamente la vertenza.

É importante segnalare che l’omissione o la tardività o la incompletezza della comunicazione precluderà all’ente sanitario o alla impresa di poter agire in rivalsa o in responsabilità amministrativa.

Va da ultimo precisato che la norma in parola ha un’indole indubbiamente processuale, cosicché essa trova applicazione anche alle vicende antecedenti all’1 aprile 2017 - data di entrata in vigore della Legge Gelli-Bianco - ma la cui richiesta di risarcimento sia stata inoltrata alla struttura sanitaria dopo tale data. In questi casi, perciò, sulla struttura incombe l’onere di fare la comunicazione di cui all’art. 13 per evitare di incorre nella decadenza dalla proposizione della domanda di regresso.

 

   

 

13. GARANTE DEL DIRITTO ALLA SALUTE                                                                                         (a cura della Dott.ssa Annalisa Di Maio).

In ambito amministrativo troviamo l’istituzione della figura del Garante del diritto alla salute (art.2), funzione che potrà essere affidata dalla Regioni all’Ufficio del Difensore Civico. Viene poi contemplata l’istituzione in ogni Regione, senza nuovi oneri per la finanza pubblica, del Centro per la gestione del rischio sanitario e la sicurezza del paziente, cui è affidato il compito di raccogliere i dati regionali sui rischi ed eventi avversi e sul contenzioso e di trasmetterli annualmente all’Osservatorio nazionale delle buone pratiche sulla sicurezza in sanità (disciplinato dall’art.3) che, ricevuti i dati predetti, individua idonee misure per la prevenzione e la gestione del rischio sanitario nonché il monitoraggio delle buone pratiche per la sicurezza delle cure. L’art. 4 sottopone poi all’obbligo di trasparenza le prestazioni sanitarie erogate dalle strutture pubbliche e private nel rispetto della normativa in materia di protezione dei dati personali (d.lgs.n. 196/2003), obbligando la direzione sanitaria a fornire in tempi rapidi la documentazione sanitaria relativa al paziente.

 

 

 

 

  1. COMMENTO ART. QUATTORDICI - FONDO DI GARANZIA                                 (a cura dell’Avv. Miriam Cuomo e della Dott.ssa Annalisa Di Maio).

 

Un aspetto della Riforma, che colpisce particolarmente in ambito civilistico, è quello che ritroviamo all’art.14 recante l’istituzione di un fondo di garanzia per i danni derivanti da responsabilità sanitaria, un’ulteriore misura di tutela dei soggetti danneggiati. Il Fondo è alimentato dal versamento di un contributo annuale dovuto dalle imprese autorizzate all’esercizio delle assicurazioni per la responsabilità civile per i danni causati da responsabilità sanitaria. Il Ministero della salute, con apposita convenzione, affida alla Concessionaria servizi assicurativi pubblici (CONSAP) Spa la gestione delle risorse del Fondo di garanzia. Con regolamento adottato con decreto del Ministro della salute viene definita la misura del contributo dovuto dalle imprese autorizzate all’esercizio delle assicurazioni per la responsabilità civile per i danni causati da responsabilità sanitaria; le modalità di versamento del contributo; i princìpi cui dovrà uniformarsi la convenzione tra il Ministero della salute e la CONSAP Spa; le modalità di intervento, il funzionamento e il regresso del Fondo di garanzia nei confronti del responsabile del sinistro. Il Fondo di garanzia risarcisce i danni cagionati da responsabilità sanitaria nei seguenti casi:

  • qualora il danno sia di importo eccedente rispetto ai massimali previsti dai contratti di assicurazione stipulati;
  • qualora la struttura sanitaria o sociosanitaria pubblica o privata ovvero l’esercente la professione sanitaria risultino assicurati presso un’impresa che al momento del sinistro si trovi in stato di insolvenza o di liquidazione coatta amministrativa o vi venga posta successivamente;
  • qualora la struttura sanitaria o sociosanitaria pubblica o privata ovvero l’esercente la professione sanitaria siano sprovvisti di copertura assicurativa per recesso unilaterale dell’impresa assicuratrice ovvero per la sopravvenuta inesistenza o cancellazione dall’albo dell’impresa assicuratrice stessa.

Ancora la “Riforma Lorenzin” ha ampliato la funzione del Fondo; nello specifico esso dovrà agevolare l’accesso alla copertura assicurativa da parte degli esercenti le professioni sanitarie che svolgono la propria attività in regime libero-professionale.

Infine, vengono abrogati i commi 2 e 4 dell’articolo 3 del decreto Balduzzi che prevedevano l’emanazione di un d.p.r. per agevolare l’accesso alla copertura assicurativa agli esercenti le professioni sanitarie, con il quale andavano disciplinate le procedure e i requisiti minimi richiesti per i relativi contratto.

 

  1. COMMENTO ART. QUINDICI  - NOMINA DEI CTU E DEI PERITI                          LA RESPONSABILITA DEL CONSULENTE DEL GIUDICE                                               (a cura dell’Avv. Vincenzo Ruggiero e Dott.ssa Claudia Coppola).

Sempre collegato alla tematica di una maggiore tranquillità e certezza all’interno dei processi civili e penali aventi ad oggetto la responsabilità sanitaria, l’art 15 della Riforma regolamenta la nomina dei consulenti tecnici e dei periti dell’Ufficio nell’ambito dei processi in questione. In tali ipotesi, infatti, l’autorità giudiziaria dovrà sempre e comunque procedere con una consulenza/perizia di natura collegiale.

La norma così recita: «Nei procedimenti civili e nei procedimenti penali aventi ad oggetto la responsabilità sanitaria, l’Autorità giudiziaria affida l’espletamento della consulenza tecnica e della perizia a un medico specializzato in medicina legale e a uno o più specialisti nella disciplina che abbiano specifica e pratica conoscenza di quanto oggetto del procedimento avendo cura che i soggetti da nominare, scelti tra gli iscritti negli albi di cui ai commi 2 e 3, non siano in posizione di conflitto di interessi nello specifico procedimento o in altri connessi e che i consulenti tecnici di ufficio da nominare nell’ambito del procedimento di cui all’articolo 8, comma 1, siano in possesso di adeguate e comprovate competenze nell’ambito della conciliazione acquisite anche mediante specifici percorsi formativi.». 

Il medico legale nel pensiero del legislatore, assume allora una centralità evidente, a tale professionista dovrà però essere affiancato, sempre, ed in una visione collegiale della controversia, da uno specialista del settore.

La necessità di una valutazione collegiale è elemento che però già emerge dal codice deontologico di settore: art. 62 codice deontologico del 2014 “(…) il medico legale, nei casi di responsabilità medica, si avvale di un collega specialista, di comprovata esperienza nella disciplina interessata; in analoghe circostanze, il medico clinico si avvale di un medico legale “”.

La legge Gelli ha rafforzato l’obbligo di valutazione collegiale del fatto lesivo, sancendo che sia il Tribunale, ed obbligatoriamente, ad affidare ab initio l’incarico peritale ad un collegio medico, composto da uno specializzato in medicina legale e da un medico specialista nella disciplina specifica.

Riteniamo che lo specialista cui fa riferimento la disposizione normativa in parola, il quale deve avere “specifica e pratica conoscenza di quanto oggetto del procedimento”, e dunque intendendosi il sanitario da affiancare al medico legale, debba essere uno specialista del settore e Dunque non solo clinico o chirurgico, ma a seconda del singolo caso giudiziario, anche un infermiere o un tecnico sanitario.

La norma in commento tocca poi il tema del conflitto di interesse senza però chiarire cosa debba intendersi con il lemma richiamato.

In linea di massima riterremmo applicabile alla fattispecie le disposizioni di cui all’art. 51 del codice di procedura civile (obbligo di astensione del Giudice) ed il successivo articolo 52 c.p.c. (ricusazione).

Il primo comma dell’articolo in discussione stabilisce poi che l’Autorità giudiziaria, nella nomina del consulente nei procedimenti di cui all’art. 696 bis cpc abbia cura di verificare che il professionista da incaricare abbia “adeguate e comprovate competenze nell’ambito della conciliazione acquisite anche mediante specifici percorsi formativi”.

Anche in questo caso il legislatore non definisce il concetto di “competenza” né quali possano essere i parametri di valutazione, né stabilendo quali possano essere i soggetti erogatori della formazione e dei relativi percorsi.

Crediamo però che percorsi universitari, corsi di aggiornamento specialistici di settore con crediti formativi riconosciuti possano, in prima battuta e in presenza di un vuoto legislativo, rispondere a questa domanda.

 

Il comma 2 dell’art. 15 stabilisce che negli albi dei consulenti tecnici in materia civilistica e negli albi dei periti in materia penalistica siano “indicate” e “documentate” le specializzazioni dei medici.      

 

commi 2 e 3 prevedono sinteticamente che gli albi dei consulenti tecnici (art. 13 disp. Att. c.p.c.) e dei periti (art. 67 disp. att. c.p.p.), oltre a dover essere aggiornati con cadenza almeno quinquennale, debbano indicare e documentare le specializzazioni degli iscritti esperti in medicina.  A tale proposito si osserva che il comma 3 riprende il comma 5 dell’art. 3 della c.d. legge Balduzzi secondo cui «Gli albi dei consulenti tecnici d'ufficio di cui all'articolo 13 del regio decreto 18 dicembre 1941, n. 1368, recante disposizioni di attuazione del codice di procedura civile, devono essere aggiornati con cadenza almeno quinquennale, al fine di garantire, oltre a quella medico legale, una idonea e qualificata rappresentanza di esperti delle discipline specialistiche dell'area sanitaria anche con il coinvolgimento delle società scientifiche, tra i quali scegliere per la nomina tenendo conto della disciplina interessata nel procedimento».

Non essendo tale norma stata abrogata dalla legge Gelli, il comma 3 dovrà coordinarsi con tale disposizione.

Preme sottolineare che con la legge Gelli, si è persa l’occasione di imporre a tutti i Consulenti degli uffici giudiziari (e quindi non solo ai consulenti medico-legali) l’obbligo di partecipare a corsi di formazione (e conseguire i relativi attestati) su questioni giuridiche che non infrequentemente insorgono nello svolgimento della consulenza tecnica di ufficio. Ci riferiamo, a titolo esemplificativo, alla natura percipiente o meno della consulenza tecnica medico-legale, al rispetto della fondamentale regola del contraddittorio nell’eventuale acquisizione di documenti e alle conseguenze connesse alla soluzione in un senso o in un altro delle dispute che spesso su tali argomenti si verificano nel corso delle consulenze. È avvertita dagli operatori giuridici l’esigenza di una più completa formazione dei CTU su questi temi che, non di rado, assumo primario rilievo nel processo civile nel cui contesto, è bene rammentarlo, si svolge la CTU.                 

Comma quarto – gli onorari.

In maniera incomprensibile il comma quarto, in tema di onorari del perito, stabilisce che ¨nei casi di cui al comma 1, l’incarico è conferito al collegio, e nella determinazione del compenso globale, non si applica l’aumento del 40 per cento per ciascuno degli altri componenti del collegio previsto dall’articolo 53 del testo unico, delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spesa di giustizia, di cui al decreto del Presidente della Repubblica del 340 maggio 2002, n. 115”.

Incongruo e ingiusto appare allora il legislatore che da un lato pretende, correttamente, una specializzazione particolare del medico legale e dello specialista, chiamati a vagliare casi delicatissimi di colpa medica ove la competenza e l’aggiornamento professionale richiesto rappresenta un elemento caratterizzante la novella, nel mentre, dall’altro, ne riduce il compenso.

Si potrebbe però offrire ai medici presenti una ipotesi interpretativa alternativa in un’ottica di dovuto favor per i professionisti chiamati a valutare vicende sanitarie caratterizzate molto spesso da un rilevante peso economico oltre che emotivo; si potrebbe allora sostenere che poiché l’incarico è sempre e obbligatoriamente affidato a una coppia di medici (i.e. il medico legale e lo specialista), il divieto dell’aumento (che non varrebbe per la coppia medico legale - specialista) opererebbe solo e allorquando il Tribunale decida di nominare una terna di medici, (un medico legale e due specialisti di settore), e ciò in quei casi in cui la fattispecie di responsabilità sanitaria confluita nell’alveo giudiziaria “tocchi” molteplici profili e branche mediche, che tra loro si intersechino, necessitando ai fini dell’accertamento, più di uno specialistica.

In senso inverso il Tribunale di Torino interpreta però la norma,  nel senso cioè di non riconoscere l’aumento per l’incarico collegiale, premurandosi nel contempo di remunerare in maniera adeguata i componenti del collegio peritale con onorario in parte fisso ex art. 21 D.M. 30 maggio 2002 ed in parte a vacazioni ex art. 1 DM cit. con aumento fino al doppio ex art. 52 dpr n. 115/2002.

La responsabilità del Consulente del Tribunale. 

La disciplina in tema di responsabilità dell’Ausiliare del Giudice è condensata nell’art. 64 del codice di procedura civile il quale da un lato evoca la responsabilità penale del Tecnico  ma, al contempo, ed al secondo comma dispone che: << in ogni caso è dovuto il risarcimento dei danni causati alle parti >>; più nello specifico la disposizione così detta: << (‘In ogni caso, il consulente tecnico che incorre in colpa grave nell’esecuzione degli atti che gli sono richiesti, è punito con l’arresto fino a un anno o con l’ammenda fino a diecimilatrecentoventinove euro. Si applica l’art. 35 c.p. In ogni caso è dovuto il risarcimento dei danni causati alle parti >>.

Le disposizioni di attuazione e le leggi professionali, inoltre regolano la responsabilità disciplinare a cui il Ctu è soggetto nella sua qualità di iscritto all’albo e di appartenente all’ordine o collegio professionale (cfr. in dottrina, Rossetti, Il c.t.u., l’occhiale del Giudice).  

Il profilo di responsabilità penale dell’Ausiliare è disciplinato dalle norme del codice penale riguardanti i periti : ad esempio relativamente al reato di abusivo esercizio di una professione, o, all’opposto, di rifiuto di uffici legalmente dovuti, vengono in rilievo gli artt. 366, 373, 374 c.p.

Si è ritenuto che il Consulente rivestendo la qualifica di pubblico ufficiale, possa essere chiamato a rispondere del reato di interesse privato in atti di ufficio di cui all’art. 324 c.p. (cfr. Trib. Venezia, 20.12.1989, in R. pen. ec. 92, 299).

La falsa perizia, sotto la duplice forma di falsa testimonianza e falsa valutazione, è punibile, a meno che il CTU non ritratti prima che sia pronunciata una sentenza di merito definitiva. Anche se non irrevocabile, o ricorrano alcune ipotesi di non punibilità ex art. 384 c.p.

Il concetto di colpa grave risulta di difficile determinazione ed ha dato adito a differenti interpretazioni.

Secondo una prima teoria, più restrittiva, il Consulente risponderebbe solo in caso di dolo o colpa grave e mai in caso di colpa lieve. (Secondo il Trib. di Bologna, 7 novembre 1994, in Foro it. 1995, I, 2998 si tratterebbe di ipotesi di risarcimento danno da reato). Si sostiene infatti che l’ultimo periodo del secondo comma sia così collegato al primo e che anche a tale ipotesi si estenderebbe la limitazione alla colpa grave, conclusione ritenuta coerente con il sistema.

L’argomento si baserebbe su di una assimilazione dell’attività del c.t.u. a quella del giudice, il quale a sua volta, in base alla l. 13 aprile 1988, n. 117 risponde oltre che per denegata giustizia, solo per dolo o colpa grave [35].

Secondo tale impostazione dunque non opererebbe la limitazione di responsabilità ex art. 2236 c.c. [36]  

Seconda altra impostazione la responsabilità in esame non subirebbe alcuna limitazione sicchè il c.t.u. al par di ogni professionista risponderebbe anche in presenza di colpa lieve. Questa interpretazione valorizza l’inciso contenuto nell’art. 64 c.p.c. “in ogni caso”, contenuto nel secondo comma dell’articolo richiamato.

Riterremmo che tale seconda interpretazione sia preferibile anche alla luce della considerazione secondo cui la responsabilità penale ha fondamenti (quanto all’elemento soggettivo) del tutto diversi dalla  responsabilità civile e quindi il fatto che la prima presupponga la colpa grave non influenza i criteri di imputabilità della seconda.

Tale ragionamento pare rafforzato dal fatto che la responsabilità dell’Ausiliare probabilmente confluibile all’interno della fattispecie di responsabilità aquiliana ex art. 2043 c.c. (ma il discorso non cambierebbe qualora la responsabilità fosse riferibile a quella contrattuale) fa si che qualunque fatto colposo, anche lieve, obbliga il suo autore al risarcimento del danno. D’altronde ogni limitazione di responsabilità è di stretta interpretazione proprio perché costituisce eccezione alla regola di fondo secondo cui il fatto generatore di danno deve sempre essere risarcito e non può invocarsi la interpretazione per analogia.           

Tale percorso interpretativo esclude la ipotizzata applicazione analogica al c.t.u. della normativa in tema di responsabilità dei Magistrati, la quale trova esclusivo fondamento

in esigenze di indipendenza ed autonomia della funzione giurisdizionale in applicazione di principi di rango costituzionale (artt. 101 e 104 Cost.), nel mentre analoghe ragioni non possono cogliersi nell’attività del c.t.u. mancando, in ogni caso, alcuna dato testuale in questi termini.

Ci si è domandati poi se la responsabilità del c.t.u. possa essere qualificata di natura contrattuale oppure extracontrattuale; la differenza non è di poco momento tenuto conto dei differenti oneri di allegazione e prova (piu’ pesanti nella responsabilità extracontrattuale ex art. 2043 c.c.) nel diverso termine prescrizionale (quinquennale in quella ex art. 2043 c.c. decennale in quella ex art. 1218 c.c.) , nella estensione dei danni risarcibili non prevedibili solo in quella ex art. 2043 c.c. (art. 1225 c.c.) .

La giurisprudenza della Corte di Cassazione ricostruisce la fattispecie in termini di responsabilità extracontrattuale visto che il rapporto che lega il c.t.u. alle parti del processo non ha nulla a che fare con quello che lega le parti di un contratto (cfr. Cass., 21 ottobre 1992, n. 11474 secondo cui : << l’art. 64 comma 2 c.p.c. disciplina, sia per l’aspetto civilistico che per quello penalistico, la responsabilità del consulente tecnico che incorre in colpa grave nell’esecuzione degli atti che gli sono richiesti, ha riguardo, cioè, sotto il profilo civilistico, alla responsabilità aquiliana per fatto illecito del consulente >> (Negli stessi termini anche Trib. Rimini, 29 giugno 2004, n. 1298).

D’altronde il c.t.u. riceve il proprio incarico non dalle parti ma unicamente dal Giudice, sicchè solo il Giudice “è il creditore” della prestazione professionale del proprio Ausiliare. Dalla mancanza di rapporto contrattuale si ritiene debba escludersi la limitazione di responsabilità ex art. 2236 c.c. valida solo in presenza di una prestazione professionale.

La dottrina (od almeno una parte) ritiene, di contro, che alla fattispecie possa applicarsi la fattispecie della responsabilità da “contatto sociale”, o da affidamento (cfr. Gazzoni, Manuale di diritto privato, Napoli, 2011, 860) secondo cui pur non essendovi un preesistente contrattotra danneggiante (il c.t.u.) e danneggiato  (la parte del processo che ha subito una relazione peritale gravemente errata), l’evento si collocherebbe in un ambito di esercizio di attività che in ogni caso ha messo in contatto le parti tra loro; con l’espressione “contatto sociale” si fa riferimento ad un “rapporto contrattuale di fatto”.

Ora, se è pur vero che le parti processuali non hanno un rapporto contrattuale con il consulente, esse hanno l’obbligo di retribuirlo secondo quanto liquidato dal Giudice, come pure hanno la legittima aspettativa a che la prestazione dell’Ausiliare sia corretta oltre che diligente tenuto conto, per altro, della funzione e della delicatezza dell’incarico da cui dipende, in maniera rilevante, l’esito della lite.

Anche nel caso del c.t.u. il soggetto (parte del processo) che subisce un danno per violazione dei doveri specifici del perito non può considerarsi alla stregua di un extraneus, solo per il dato formale dell’assenza del vincolo contrattuale.

Se si segue questa teorica alla ipotesi di responsabilità del c.t.u. potrà applicarsi il disposto limitativo di responsabilità di cui all’art. 2236 c.c. (limitazione di responsabilità per problemi tecnici di particolare difficoltà).

Il nesso di causa tra la condotta del c.t.u. ed il danno subito dalla parte.

Ci si è domandati se il nesso di causa tra la prestazione caratterizzata da dolo o colpa del c.t.u. ed il danno prodotto possa essere considerato interrotto dalla delibazione  resa dal Giudice, il quale, come peritus peritorum, è chiamato a valutare la complessiva attendibilità della relazione peritali e, se del caso, disattenderla.

Così facendo il Giudice si assume la responsabilità esclusiva del processo e l’attività del c.t.u. avrebbe solo un valenza endoprocessuale, mentre ogni effetto esterno dipenderebbe unicamente dal pronunciamento del Giudice; insomma, ed a titolo esemplificativo, la pronuncia di condanna di un medico per colpa sanitaria dipenderebbe esclusivamente dal giudice che la ha resa e non dalla relazione peritale resa dall’Ausiliare seppur questa sia stata presupposto della prima, e ciò perché, (secondo tale teorica) quella relazione peritale, in ogni caso,  ha subito il vaglio valutativo del Magistrato.

Il percorso argomentativo, ora riassunto, non pare però convincente soprattutto in presenza di consulenze tecniche, come quelle in ambito di colpa mediche, caratterizzate da tecnicalità rilevanti, in questi casi allora il Giudice, molto difficilmente potrebbe rendersi conto di un deficit logico, ricostruttivo, valutativo che affligge la relazione peritale; rischio ancor maggiore in presenza di consulenze percipienti, ossia in presenza di consulenze ove l’ausiliare è chiamato ad accertare dei fatti, non altrimenti accertabili se non con l’ausilio di particolari acquisizioni probatorie, o con l’ausilio di particolari strumenti tecnici; in questo caso la consulenza assurge a vera e propria fonte obiettiva di prova; attraverso di essa entrano nel processo fatti non altrimenti dimostrabili. Dunque nel caso di consulenza tecnica percipiente è davvero difficile che il Giudice esprima una valutazione decisoria che vada in senso contrario rispetto alle risultanze rese dal perito; in altre parole come potrebbe mai il Giudice individuare errori resi dal c.t.u. in presenza di dati acquisiti per il tramite di esami realizzati attraverso macchinari specialistici?

Queste considerazioni indurrebbero a poter sostenere che, quanto meno in tali fattispecie, il provvedimento del Giudice non apparirebbe idoneo ad interrompere il nesso di causa tra il fatto o l’omissione erronea del consulente ed il danno prodotto, ma anzi la consulenza (errata) concreterebbe “il pilastro” su cui è stata resa la sentenza sbagliata; da qui la responsabilità risarcitoria dell’ausiliare.

Il danno individuabile in prima battuta si individuerebbe nell’obbligo di restituzione da parte dell’ausiliare del compenso ricevuto, realizzando questo un indebito oggettivo ripetibile ad opera del creditore, ma a questo potrebbe ben aggiungersi il danno subito dalla parte conseguenziale alla pronuncia giudiziale errata fondata su di una  consulenza errata; in ogni caso ben potrebbero essere addebitati al consulente i costi sostenuti per ottenere “il ribaltamento” della sentenza sfavorevole preceduta dal “ribaltamento” della consulenza erronea, negligente, fondata su dati successivamente conosciuti come non veritieri.

Ma la consulenza che si è protratta per troppo tempo può anche essere foriera di danni ex lege Pinto (durata eccessiva del processo) soprattutto allorquando si accerti, dopo lunghe e successive attività istruttorie, che le conclusioni cui era giunta la consulenza preventiva, cui ha fatto seguito una consulenza di merito, erano errata nelle sue valutazioni finali. Si pensi ancora al mancato deposito della relazione peritale, alla sostituzione del perito per colpa di questi, all’eccessivo ricorso alle proroghe; a tal riguardo interessante è il richiamo alla sentenza della Corte dei Conti sez, giur. Toscana 22 maggio 2008, n. 360 che ha condannato un consulente del Tribunale a rifondere al Ministero della Giustizia quanto da questi pagato a titolo di equa riparazione ad un cittadino in base alla legge n. 89 del 2001 per l’eccessiva durata di un processo, durata su cui hanno ritenuto i giudici contabili – aveva sensibilmente inciso la negligenza dell’Ausiliare.

 

 

 

 

  1. COMMENTO ART. SEDICI COMMA PRIMO: L’ATTIVITÀ DI GESTIONE DEL RISCHIO CLINICO E I PROCEDIMENTI GIUDIZIARI                                                                                                 (cura dell’Avv. Vincenzo Ruggiero).

 

Di rilievo è la previsione normativa in parola che all’articolo 1, comma 538, lettera a) della legge 28.12.2015, n. 208, sostituisce il secondo periodo dal seguente in base al quale: “I verbali e gli atti conseguenti all’attività di gestione del rischio clinico non possono essere acquisiti o utilizzati nell’ambito di procedimenti giudiziari.”.

 

La disposizione si inserisce nelle previsioni normative introdotte dalla legge di stabilità del 2016 dove al comma 538 e poi nell’art. 539 ove si prevede una attività di prevenzione e gestione del rischio sanitario oltre all’obbligo per le strutture sanitarie pubbliche e private  erogatrici di prestazioni sanitarie “ad attivare una adeguata funzione di monitoraggio, prevenzione e gestione del rischio sanitario (“risk management”). [37]

Viene stabilito, con la nuova norma, è che i documenti elaborati in seguito alla attività di risck management non possono essere acquisiti dall’Autorità giudiziaria ed, estremizzando, assunti come mezzi di prova nel processo penale qualora fossero emersi indizi di reato; la norma escluderebbe l’acquisizione anche nell’ambito di processi civili con il meccanismo dell’art. 210 cpc.

La mancata possibilità di acquisire da parte dell’Autorità giudiziaria, sia penale che civile, questi dati informativi, provenienti dalle cd. “indagini interne”, consentirà ai responsabili che gestiscono il rischio sanitario, di agire in maniera “meno vincolata” e senza la preoccupazione  di fornire elementi di responsabilità a carico della struttura e del medico coinvolto in favore del terzo danneggiato, favorendo dunque un meccanismo dei flussi informativi e delle metodiche di gestione intero del rischio sanitario funzionale a migliorare i percorsi sanitari prevenendo gli errori e migliorando la qualità del servizio e della prestazione erogata. Nel contempo però il divieto di accesso si pone in aperta contraddizione con la trasparenza evocata dal legislatore, (art. 4, comma 3 dovere delle strutture di rendere pubblicità sul sito internet dei dati relativi a tutti i risarcimenti erogati nell’ultimo quinquennio, previsione per altro non oggetto di sanzione)[38] ed in tutta una serie di casi, con il corretto accertamento della responsabilità delle strutture. 

 

Il comma due: l’attività di gestione del rischio sanitario.

La disposizione in commento integra il comma 540 della legge di stabilità 2016, la cui definitiva formulazione è allora la seguente: “l’attività di gestione del rischio sanitario è coordinata da personale medico dotato delle specializzazioni in igiene, epidemiologia e sanità pubblica o equipollenti, in medicina legale ovvero di personale dipendente con adeguata formazione e comprovata esperienza almeno triennale nel settore”. (n.d.r. parte in grassetto modifica introdotta con legge Gelli).

 

La modifica allarga allora le professionalità deputate al (solo) coordinamento delle attività di gestione del rischio clinico, originariamente riservato ai medici specialisti in igiene, introducendo gli specialisti in medicina legale e personale dipendente adeguatamente formato e con esperienza almeno triennale. 

 

Anche in questo caso ritorna il tema di come ed attraverso chi si possa assicurare il percorso formativo, ed attraverso quali parametri di valutazione riconoscere la “patente” di competenza cui affidare il coordinamento del clinical risk managament.  

 

Da ultimo si segnala che la norma fa riferimento a personale dipendente della struttura sanitaria pubblica o privata sicchè tale funzione verrebbe esclusa a professionisti esterni con il che il campo verrebbe a restringersi soprattutto considerando che il risk manageme ent necessariamente sconti un approccio multidisciplinare e dunque particolarmente complesso. 

     

17. I PROFILI PENALI

La responsabilità penale dell’operatore sanitario nei delitti contro la persona:

le sezioni unite indicano il perimetro applicativo della Gelli-Bianco[39]

(a cura dell’Avv.  Catello Vitiello)

 

Premessa: una breve ricostruzione della disciplina

La responsabilità professionale dell’operatore sanitario, attese le caratteristiche e la complessità dell’atto medico, è stata oggetto di un lungo dibattito, dottrinale e giurisprudenziale, a seguito di profonde modifiche legislative che rappresentano il tentativo di limitare il contenzioso giudiziario cui risultano sottoposti i medici e che, per questo, hanno modificato il significato della “colpa lieve” introducendo concetti come “linee guida” (dettate per la tutela del paziente, da non confondere con le “discipline” individuate sulla scorta delle singole specializzazioni) e “buone pratiche” (accreditate dalla comunità scientifica come quelle regole standardizzate di comportamento – i protocolli – che il personale sanitario deve tenere in determinate situazioni), volti a giustificare il comportamento del sanitario.

Invero, le recenti leggi che hanno ridisegnato la responsabilità colposa in ambito sanitario sono il punto di arrivo di un lungo e tortuoso percorso, segnato non solo da diversità di opinioni e di indirizzi in ambito sia dottrinario che giurisprudenziale, ma anche – e giustamente – da forti prese di posizione delle categorie interessate, tese a sottolineare quali fossero le preoccupazioni dei potenziali destinatari delle sanzioni penali e quali fossero i riflessi di tali preoccupazioni sulla loro attività professionale e, in definitiva, sul servizio sanitario nel suo insieme.

Come noto, i delitti di omicidio colposo e di lesioni colpose sono conseguenza di una omissione colposa, la cui responsabilità si configura ai sensi dell’art. 43 c.p.: il reato colposo, o contro l’intenzione, sussiste quando l’evento, anche se previsto, non è voluto dall’agente ed è quindi dovuto a cause di negligenza o imprudenza o imperizia.

Anche nel reato colposo sono necessari l’elemento psicologico (colpevolezza) e l’elemento normativo (individuazione del fatto tipico) e i parametri di riferimento per la ricerca della tipicità sono appunto la negligenza, l’imprudenza, l’imperizia (violazione di principi cardine della scienza medica) e l’inosservanza di leggi e regolamenti. I delitti colposi sono reati casualmente orientati con evento naturalistico nei quali la prevedibilità e l’evitabilità dell’evento sono concetti che pervadono tutta la struttura del reato e soprattutto influiscono sul nesso di causalità.

Preliminare a ogni indagine sulla colpevolezza, però, è l’accertamento della ricorrenza o meno della cd. suitas della condotta.

Ciò significa che prima di stabilire a quale titolo soggettivo l’agente debba rispondere di un determinato fatto – ossia se a titolo di dolo o di colpa, preterintenzione o responsabilità oggettiva – è necessario verificare se la condotta sia o meno riferibile all’agente stesso: senza coscienza e volontà dell’azione o dell’omissione (appunto la suitas della condotta) non vi può essere responsabilità penale.

L’art. 42, comma 1, c.p. stabilisce, infatti, che “nessuno può essere punito per un’azione od omissione preveduta dalla legge come reato se non l’ha commessa con coscienza e volontà”. Solo quando sia presente questa “signoria” della volontà del soggetto sulla situazione concreta, il fatto dell’uomo si distingue dai semplici accadimenti naturali e diviene oggetto del divieto penale.

Secondo un primo orientamento, tale formula andrebbe intesa unicamente in senso letterale, ossia nel significato psicologico di coscienza e volontà reali, di talché una condotta può considerarsi propria dell’agente solo in quanto sia il risultato di un suo impulso cosciente e volontario. Altra dottrina, invece, ha sostenuto la necessità di interpretare estensivamente la formula legislativa “coscienza e volontà”, ricomprendendo in essa non solo la coscienza e volontà effettiva e reale, ma anche quella potenziale: devono essere ritenute pertanto riferibili all’agente, oltre che le condotte frutto di un reale impulso cosciente della volontà, anche quelle che, pur non essendolo, potevano comunque essere dall’agente dominate e impedite con uno sforzo del volere. 

Secondo quest’ultima impostazione, quindi, la suitas assumerebbe connotati diversi a seconda dell’elemento soggettivo che caratterizza il reato.

In particolare:

1) nelle fattispecie criminose punite a titolo di dolo e colpa cd. cosciente, la suitas consisterebbe nella coscienza e volontà “reali”, intese come entità psicologiche e naturalistiche, risultando pertanto la condotta il prodotto di un impulso reale, cosciente e volontario dell’agente;

2) nelle fattispecie criminose punite a titolo di colpa incosciente nonché nei reati omissivi dovuti a dimenticanza essa si identificherebbe con la coscienza e volontà potenziale e quindi come tale avrebbe un contenuto solo ipotetico e normativo, potendo essere accertata soltanto alla stregua di un giudizio “probabilistico” avente ad oggetto la dominabilità della condotta da parte dell’agente. Ciò significa che, in questi casi, l’azione potrà considerarsi riferibile all’agente anche quando risulti soltanto dominabile dal volere di costui, dovendosi intendere come dominabile ogni atto che può essere impedito mediante l’attivazione dei normali poteri di arresto o di impulso della volontà.

Ciò posto, l’elemento psicologico idoneo a integrare la condotta dell’operatore sanitario può identificarsi, per quanto ivi rilevante, nel dolo o nella colpa.

Si ha dolo quando l’evento (rectius, la morte) è stato rappresentato dal soggetto agente come conseguenza della sua condotta e costui lo ha voluto proprio come fine della sua azione. Viceversa, si ha colpa quando l’evento, anche se previsto, non è in alcun modo voluto dal soggetto agente quale conseguenza della sua condotta, tanto che esso si verifica per negligenza, imprudenza o imperizia.

L’art. 43, comma 3, c.p. definisce il delitto “colposo o contro l’intenzione, quando l’evento, anche se preveduto, non è voluto dall’agente, e si verifica a causa di negligenza o imprudenza o imperizia ovvero per inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline”.

Si tratta di una forma di responsabilità eccezionale e sussidiaria rispetto a quella dolosa, necessitando di un’espressa previsione legislativa e presupponendo l’assenza del dolo (art. 42, comma 2, c.p., secondo il quale “nessuno può essere punito per un fatto previsto dalla legge come delitto, se non l’ha commesso con dolo, salvo i casi di delitto […] colposo espressamente preveduti dalla legge”).

Il primo tratto distintivo della colpa ha, pertanto, una connotazione “negativa”: essa si caratterizza come assenza di dolo.

E anzi, proprio la natura eccezionale, sussidiaria e alternativa della responsabilità colposa rispetto a quella dolosa fa sì che il riferimento contenuto all’art. 43, comma 3, c.p. alla sola mancanza di volontà dell’evento debba ritenersi incompleto: se, infatti, il dolo è coscienza e volontà del fatto tipico in tutti i suoi elementi, l’assenza di rappresentazione e volizione di anche uno solo di essi – sia esso l’evento oppure un altro requisito positivo o negativo (ad es.: assenza di una scriminante) – esclude la ricorrenza di tale atteggiamento psicologico.

Più correttamente, quindi, il primo requisito della colpa deve essere inteso come mancanza di volontà del fatto tipico, in tutti i suoi elementi costitutivi.

 Il secondo tratto distintivo di tale forma di imputazione soggettiva ha, invece, carattere oggettivo e normativo: l’inosservanza di regole cautelari di condotta, ovvero di quelle norme dirette a prevenire gli eventi dannosi involontari e perciò a salvaguardare i beni giuridici, orientando i comportamenti umani in modo non (o comunque meno) pericoloso.

Ma non basta.

Per poter formalizzare un addebito a titolo di colpa non è sufficiente la violazione della regola cautelare, ma occorre anche che tale violazione sia imputabile all’agente, pena la costruzione di una forma di responsabilità oggettiva. Ciò significa che, una volta accertata la violazione della regola cautelare, occorre verificare se l’adozione della condotta doverosa imposta era esigibile o meno dal soggetto agente e quindi, in definitiva, se questo sia rimproverabile o meno per tale inosservanza.

L’inosservanza della regola di condotta sarà quindi addebitabile e perciò rimproverabile al soggetto agente qualora l’evento risulti dallo stesso prevedibile, quale conseguenza lesiva del proprio comportamento, ed evitabile mediante l’osservanza della regola cautelare e l’adozione del comportamento doveroso.

Ciò detto, è evidente che la prevedibilità delle conseguenze dannose della propria condotta non risulta sufficiente a descrivere il contenuto soggettivo della colpa in relazione alle condotte pericolose ma legislativamente consentite, prima fra tutte l’attività medica, in cui l’evento pur se prevedibile è da considerarsi quale rischio socialmente accettato.

È opportuno, allora, introdurre la distinzione tra colpa comune e colpa professionale (o speciale).

Si parla di colpa comune con riferimento a tutte quelle attività lecite in cui il soggetto agente è tenuto ad astenersi dal tenere determinati comportamenti al fine di evitare che la condotta sia fonte di eventi dannosi, in quanto l’ordinamento giuridico non è disposto ad accettare che sia corso al riguardo alcun rischio. Il giudizio di colpa, in questi casi, si basa sulla prevedibilità ed evitabilità dell’evento accertata ex ante e in relazione al parametro dell’homo ejusdem professionis et condicionis.

Si parla invece di colpa professionale nel caso di attività che sono intrinsecamente pericolose ma giuridicamente autorizzate – in quanto indispensabili o comunque socialmente utili – e che devono essere esercitate entro i limiti segnati dalle regole cautelari (ccdd. leges artis) scritte o non scritte, che prescrivono non l’astensione dall’attività ma l’esercizio della stessa in presenza di determinati presupposti o secondo certe modalità. Tali regole, identificandosi in norme prudenziali, sono per definizione dirette a prevenire il verificarsi non di qualsiasi evento lesivo che possa derivare dall’esercizio di tali attività, ma solo di quelli che esulano dal cd. rischio consentito, ovvero quello insito nella stessa attività autorizzata.

Ebbene, è di tutta evidenza che in questi casi, se si muovesse il giudizio di colpevolezza unicamente con riferimento ai parametri della prevedibilità ed evitabilità in relazione all’agente modello, si finirebbe per imputare a titolo di colpa ogni evento lesivo che sia conseguenza della condotta tenuta dal suo autore, perché tendenzialmente sempre prevedibile, considerato il tipo di attività svolta, ed evitabile astenendosi dall’agire.

In realtà il giudizio di colpa, in questi casi, presuppone non solo la prevedibilità ed evitabilità dell’evento, ma anche che si sia oltrepassato un certo limite – quello, appunto, del cd. rischio consentito – oltre il quale l’attività non può più ritenersi autorizzata, divenendo illecita.

E così, il medico non risponderà della morte del paziente, pur essendo questa prevedibile tenendo la condotta ed evitabile astenendosi da essa, laddove l’intervento operatorio sia stato effettuato a regola d’arte e il decesso sia intervenuto per complicazioni post-operatorie; viceversa, l’esito infausto dell’intervento sarà addebitabile al medico nel caso in cui lo stesso sia derivato da imperizia, negligenza o imprudenza, versandosi, in questi casi, al di fuori del rischio consentito, i cui confini sono appunto delimitati dall’osservanza delle leges artis del settore.

Le tradizionali questioni che si agitano nel campo della responsabilità penale dei sanitari si riassumono nell’individuazione delle cd. «leges artis» e del grado della colpa, nei rapporti fra imprudenza, negligenza e imperizia e nella necessità di arginare la «medicina difensiva».

Le “leges artis” sono lo strumento per definire in modo omogeneo i criteri comportamentali dei sanitari nelle diverse situazioni, costituito da prescrizioni a carattere generale (ancorché talora molto articolate e minuziose), variamente definite e caratterizzate: a seconda dei casi si trattava di linee guida, di protocolli o di «best practices».

Nell’esperienza italiana, talune di queste prescrizioni si trovavano (e si trovano tuttora) enunciate sia in alcuni testi normativi, sia in documentazioni scientifiche intese a standardizzare, sul piano delle regole di comportamento, le procedure da adottare in determinate situazioni diagnostico-terapeutiche.

Naturalmente l’approccio al problema non poteva non tenere conto della portata multilivello delle prassi sanitarie potenzialmente incidenti sui risultati dell’attività diagnostico-terapeutica: entrano in gioco le attività proprie del medico generico o specialista, così come quelle del chirurgo, o come quelle prettamente infermieristiche; ma ne sono interessati anche i profili organizzativi (e anche economici) delle strutture sanitarie, nei loro diversi gradi di complessità. Inoltre, non tutti i pazienti sono uguali, anche se uguale è la patologia che li affligge; e ciò, a talune condizioni, comporta necessariamente un adattamento delle “regole d’ingaggio” al caso concreto e alle variabili che, nell’ambito di esso, entrano in gioco e suggeriscono di attenersi in misura maggiore o minore a “protocolli” e “linee guida”, o addirittura impongono in certi casi di discostarsene.

Anche per questo, l’approccio giurisprudenziale tradizionale era tendenzialmente cauto: la Suprema Corte si esprimeva nel senso di non considerare le linee-guida come idonee a esaurire le regole di condotta sanitaria in rapporto a ogni singolo caso concreto: nel praticare la professione medica, “il medico deve, con scienza e coscienza, perseguire un unico fine: la cura del malato utilizzando i presidi diagnostici e terapeutici di cui al tempo dispone la scienza medica, senza farsi condizionare da esigenze di diversa natura, da disposizioni, considerazioni, valutazioni, direttive che non siano pertinenti rispetto ai compiti affidatigli dalla legge ed alle conseguenti relative responsabilità”. Il rispetto delle “linee guida” non poteva insomma essere univocamente assunto quale parametro di riferimento della legittimità e di valutazione della condotta del medico; e quindi “nulla può aggiungere o togliere al diritto del malato di ottenere le prestazioni mediche più appropriate né all’autonomia ed alla responsabilità del medico nella cura del paziente”. Pertanto, “non può dirsi esclusa la responsabilità colposa del medico in riguardo all’evento lesivo occorso al paziente per il solo fatto che abbia rispettato le linee guida, comunque elaborate, avendo il dovere di curare utilizzando i presidi diagnostici e terapeutici di cui al tempo la scienza medica dispone” (Cass. pen., Sez. IV, 23 novembre 2010 – 2 marzo 2011, n. 8254).

Quanto alla gradualità della colpa, al netto di pochissime eccezioni (come, ad esempio, l’art. 64 c.p.c. che punisce con una contravvenzione il consulente tecnico che, fuori dei casi di cui agli artt. 366 e 373 c.p., incorre in colpa grave nell’esecuzione degli atti che gli sono richiesti), sul piano del diritto positivo, le prescrizioni generali in materia di colpa penale non conoscono una distinzione della colpa in base al grado della stessa (colpa grave, lieve o intermedia).

Nondimeno, nell’ambito della colpa penale dell’esercente la professione sanitaria, la giurisprudenza (con l’avallo della Corte costituzionale con la sentenza n. 166/1973) per lungo tempo si attenne al principio civilistico di cui all’art. 2236 c.c., secondo il quale il prestatore d’opera risponde solo in caso di dolo o di colpa grave (e in specie, sotto quest’ultimo profilo, in caso di errore grossolano secondo il parametro dell’imperizia) quando la prestazione implica la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà.

Inoltre, data la sua tradizionale collocazione all’interno della colpa generica, il parametro deontologico del comportamento del medico (violato il quale si pone il problema della natura colposa della condotta del sanitario penalmente rilevante) è stato – almeno finora – costituito dalle nozioni di prudenza, diligenza e perizia (naturalmente, nella loro accezione negativa che va a caratterizzare la violazione delle regole cautelari).

In dottrina, come noto, si è cercato di dare una definizione chiara e netta delle tre nozioni. In termini affatto generali e consapevolmente imprecisi, si tende ad ascrivere alla categoria dell’imperizia il comportamento del soggetto inosservante delle regole cautelari perché “inesperto”, soprattutto sul piano esecutivo; alla categoria della negligenza il comportamento del soggetto inosservante per non avere fatto ciò che era doveroso fare; alla categoria dell’imprudenza il comportamento del soggetto inosservante per avere fatto ciò che era doveroso non fare. Ma, a fronte di tali tentativi, diversi Autori riconoscono e mettono in luce la sussistenza di margini talora evanescenti, quando non di (almeno parziali) sovrapposizioni, tra le tre nozioni appena richiamate[40].

Appare però di un certo interesse esaminare brevemente anche gli orientamenti seguiti al riguardo dalla giurisprudenza, la quale – nell’approccio tradizionale – valutava il concetto di “imperizia” nei reati colposi – addebitati a soggetti che prestano mansioni di particolare delicatezza, specializzazione e responsabilità – “in rapporto alla qualifica e all’attività svolta in concreto, le quali esigono l’osservanza delle regole e delle precauzioni doverose da parte della media dei soggetti rivestenti identica qualifica e svolgenti identiche mansioni” (Cass. pen., Sez. IV, 18 aprile 1986 – 5 novembre 1986, n. 12416).

Venendo alla giurisprudenza tradizionale, relativa ai casi di responsabilità per delitti colposi in ambito sanitario, un risalente indirizzo seguito dalla Suprema Corte tendeva a distinguere la valutazione della responsabilità colposa dell’esercente la professione sanitaria a seconda che egli avesse operato con imperizia, ovvero con negligenza o imprudenza: nel primo caso, si prendevano a riferimento i parametri indicati dall’art. 2236 c.c. (secondo cui “se la prestazione implica la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, il prestatore d’opera non risponde dei danni, se non in caso di dolo o di colpa grave”); nel secondo caso si giudicava secondo gli ordinari parametri della responsabilità colposa in ambito penale. Secondo tale orientamento, che si poneva nel solco della citata sentenza n. 166/1973 della Corte costituzionale, il carattere colposo della condotta del sanitario doveva essere valutato nel ristretto ambito della colpa grave stabilito dall’art. 2236 c.c. quando l’addebito fosse mosso sotto il profilo dell’imperizia (perché resosi protagonista di una macroscopica violazione delle basilari regole dell’arte medica); mentre qualora la responsabilità del professionista trovasse la propria origine nella negligenza e nell’imprudenza i criteri per l’accertamento della colpa del medico dovevano essere comuni a quelli con i quali si valuta ogni condotta colposa (Cass. pen., Sez. IV, 5 novembre 1984 – 20 dicembre 1985, n. 12249).

Era dunque già presente, nella giurisprudenza di legittimità, una distinzione tra imperizia, da un lato, e imprudenza e negligenza, dall’altro, ai fini della determinazione dei criteri di valutazione della responsabilità colposa del sanitario, sia pure in un quadro normativo affatto diverso dall’attuale.

Nel tempo, come si è accennato supra, il citato indirizzo cedette il posto a un altro e più rigoroso orientamento, in cui si escludeva che lo statuto della colpa professionale del sanitario in ambito penalistico potesse articolarsi in modo differenziato rispetto alle generali previsioni riguardanti la colpa penale.

A partire dagli anni ’90 del secolo scorso e fino al settembre 2012, infatti, l’orientamento giurisprudenziale in materia di colpa medica è radicalmente cambiato, fino – addirittura – a ribaltarsi.

Infatti, s’è affermato come in ambito penale non si potesse graduare la colpa in lieve e grave e che, pertanto, dovesse ritenersi penalmente rilevante anche la colpa lieve, sempre che tra l’azione o l’omissione imperita fosse accertabile, con alto grado di probabilità logica, l’esistenza del nesso causale con l’evento infausto (cfr. sul punto Cass. pen., Sez. Un., 20 settembre 2002 n. 30328, imp. Franzese).

Il segnalato orientamento, eccessivamente rigoroso, ha dato così luogo alla nascita della prassi deviante della cd. medicina difensiva

Dottrina e giurisprudenza hanno messo in luce il rischio che previsioni troppo stringenti in tema di colpa medica – tali cioè da esercitare una pressione particolarmente incisiva sulle condotte diagnostiche, terapeutiche o profilattiche tenute dai sanitari – possano spingere verso l’adozione di prassi oltremodo guardinghe, costituite ad esempio dal praticare cure eccessive e talora non appropriate, dall’eseguire interventi chirurgici sproporzionati rispetto alle necessità reali, o dal prescrivere esami o analisi del tutto inutili; o, di contro, dall’astenersi dall’effettuare cure magari consigliabili, ma foriere di rischi.

Sta di fatto che lo spettro della “medicina difensiva” ha accentuato la tendenza, sempre più sollecitata dalla classe medica e in certe fasi condivisa dalla giurisprudenza penale, a circoscrivere la responsabilità (soprattutto, ma non esclusivamente, penale) del sanitario.

Gli interventi legislativi di questi ultimi anni, dunque, hanno in qualche misura cercato di recepire le istanze del personale sanitario tese a ottenere una limitazione della responsabilità professionale (proprio attraverso il contrasto al fenomeno della medicina difensiva).

Di talché, sia la legge Balduzzi (legge 8 novembre 2012 n. 189) sia la legge Gelli-Bianco (legge 8 marzo 2017, n. 24) hanno agito sulla delimitazione della responsabilità penale del sanitario sul piano della colpa.

 

Le due riforme: dalla legge Balduzzi alla legge Gelli-Bianco

Inizialmente, nel 2012, si è tentato di scongiurare la deriva della medicina difensiva con l’art. 3 della legge Balduzzi (secondo cui “l’esercenteleprofessionisanitarie chenellosvolgimentodellapropriaattivitàsiattienea lineeguidaebuonepraticheaccreditatedallacomunitàscientificanonrispondepenalmenteper colpalieve.Intalicasirestacomunquefermol’obbligodicuiall’art.2043 c.c.”), cosicché un operatore sanitario versasse in colpa grave:

A)               quando non aveva applicato, per mancanza di conoscenza, le linee guida in un caso in cui le stesse dovevano essere certamente applicate;

B)                quando aveva macroscopicamente sbagliato nell’applicazione pratica delle linee guida correttamente individuate;

C)                quando si era scrupolosamente attenuto alle linee guida ma, a causa della peculiarità del caso concreto e di fattori immediatamente riconoscibili, egli comunque doveva distanziarsene.

Appare evidente la ragione per cui la legge Balduzzi sia stata accolta con favore dagli operatori sanitari: essa escludeva la colpa lieve dall’ambito della colpa penalmente rilevante, scriminando così le condotte degli operatori sanitari che, sebbene difformi dalle linee guida, non ne fossero macroscopicamente divergenti.

La disposizione, in sostanza, prevedeva che il sanitario che si fosse attenuto alle linee guida non rispondesse penalmente per colpa lieve, ma solo per colpa grave.

Sul piano interpretativo, la giurisprudenza maggioritaria ha affermato – da un lato – che il rispetto delle linee guida da parte del medico non esonerasse del tutto lo stesso dal giudizio di colpa, chiarendo, in particolare, che le suddette linee guida attenessero esclusivamente a regole di perizia e, dunque, non venissero in rilievo quando i profili di colpa riguardavano la negligenza e la prudenza; ha specificato – dall’altro – come si concretizzasse la colpa grave quando il sanitario si atteneva a linee guida nonostante macroscopiche specificità del caso concreto imponessero di non attenervisi, e qualsiasi altro sanitario, al posto dell’imputato, si sarebbe reso conto della necessità di disattendere le linee guida nel caso concreto (si veda Cass. pen., IV Sez., 28 maggio 2015, n. 27185).

 

A fronte di tale condivisibile innovazione, la disposizione citata difettava solo in ordine alle modalità d’individuazione delle linee guida che, per essere scriminanti, avrebbero dovuto essere semplicemente “accreditate” presso la non meglio definita “comunità scientifica”.

Proprio sulla scorta del segnalato “vuoto” definitorio, il legislatore italiano è nuovamente intervenuto nel marzo 2017 mediante la legge Gelli-Bianco, che ha abrogato il citato art. 3 della legge 8 novembre 2012 n. 189.

Tale novella legislativa, infatti, ha finalmente risolto il problema della “certificazione” delle cd. linee guida: ai sensi dell’art. 5 della legge 8 marzo 2017, n. 24, le linee guida alle quali il sanitario deve attenersi sono quelle “elaborate dalle società scientifiche iscritte in apposito elenco istituito e regolamentato con decreto del Ministero della salute, da emanare entro centottanta giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge”, precisando, inoltre, che “ai fini della presente legge, le linee guida sono inserite nel Sistema nazionale per le linee guida (SNLG) e pubblicate nel sito internet dell’Istituto superiore di sanità”.

Le linee di indirizzo che rilevano a tal fine devono, quindi, essere elaborate da enti e istituzioni pubblici e privati nonché da società scientifiche e da associazioni tecnico-scientifiche delle professioni sanitarie iscritte in apposito elenco, che sarà istituito e regolamentato con decreto del Ministro della salute; in mancanza, gli esercenti le professioni sanitarie si avvalgono delle cd. buone pratiche clinico-assistenziali. Vengono, poi, fissati i criteri per regolamentare l’iscrizione nell’apposito elenco delle predette società e associazioni, sotto il profilo della rappresentatività, della costituzione mediante atto pubblico, delle garanzie di accesso libero di professionisti aventi titolo alla loro partecipazione alle decisioni, all’assenza di scopo di lucro ecc.

L’inserimento delle linee guida e dei relativi aggiornamenti nel Sistema nazionale per le linee guida (SNLG) e la pubblicazione a cura dell’Istituto Superiore di Sanità sul proprio sito internet avvengono previa verifica della conformità della metodologia adottata agli standard definiti e resi pubblici dallo stesso Istituto.

Partendo, quindi, dalla qualificazione delle linee guida come mere raccomandazioni di ordine generale, la cui attuazione va sempre misurata sulle specificità del singolo caso concreto, la giurisprudenza di legittimità ha, nel tempo (e in specie sotto il vigore della legge Balduzzi), fissato alcuni principi che pare qui utile richiamare.

Ad esempio, in una sentenza del 2015, la Suprema Corte ha affermato che il rispetto di linee guida accreditate presso la comunità scientifica non determina, di per sé, l’esonero dalla responsabilità penale del sanitario (ai sensi del previgente art. 3, comma 1, della legge Balduzzi), dovendo comunque accertarsi se la specificità del quadro clinico del paziente imponesse un percorso terapeutico diverso rispetto a quello indicato da dette linee guida (Cass. pen., Sez. IV, 22 aprile 2015 – 8 giugno 2015, n. 24455).

In un’altra sentenza, la Cassazione ha affermato il principio in base al quale è connotata da colpa non lieve – preclusiva, quindi, dell’esonero previsto dall’art. 3 D.L. 13 settembre 2012, n. 158, convertito con modificazioni dalla legge 8 novembre 2012, n. 189 – la condotta del medico che si attiene a linee guida accreditate anche quando la specificità del quadro clinico del paziente imponga un percorso terapeutico diverso rispetto a quello indicato dalle menzionate linee guida (Cass. pen., Sez. IV, 8 luglio 2014 – 16 gennaio 2015, n. 2168).

La Corte di legittimità, nel disattendere le doglianze del ricorrente, ha osservato sul punto che “la verifica della condotta del medico ai fini dell’esenzione da colpa non può essere limitata esclusivamente all’osservanza del parametro della pedissequa osservanza delle linee guida”, le quali “non possono fornire indicazioni di valore assoluto, né può ritenersi che l’adeguamento o il non adeguamento del medico alle medesime escluda o determini automaticamente la colpa”. Dunque, richiamando la precedente e fondamentale sentenza Cantore (Cass pen., Sez. IV, 29 gennaio 2013, n. 16237), ha ribadito che “il rispetto delle linee guida non esonera da responsabilità il medico che, al di fuori dei casi di colpa lieve, non abbia tenuto conto di specificità che caratterizzavano il quadro patologico del paziente e che avrebbero dovuto indirizzare verso un percorso terapeutico diverso”.

Nella citata sentenza, con ampio percorso argomentativo, la Cassazione rilevava fra l’altro che “le direttive di cui si discute non sono in grado di offrire standard legali precostituiti; non divengono, cioè, regole cautelari secondo il classico modello della colpa specifica: da un lato la varietà ed il diverso grado di qualificazione delle linee guida; dall'altro, soprattutto, la loro natura di strumenti di indirizzo ed orientamento, privi della prescrittività propria di una regola cautelare, per quanto elastica”; e che, insomma, “per il terapeuta come per il giudice, le linee guida non costituiscono uno strumento di precostituita, ontologica affidabilità”. Quindi, enunciava un principio che fornisce un utile spunto interpretativo anche nell’assetto delineato dalla legge Gelli-Bianco: ossia che “potrà ben accadere che il professionista si orienti correttamente in ambito diagnostico o terapeutico, si affidi cioè alle strategie suggeritegli dal sapere scientifico consolidato, inquadri correttamente il caso nelle sue linee generali e tuttavia, nel concreto farsi del trattamento, commetta qualche errore pertinente proprio all’adattamento delle direttive di massima alle evenienze ed alle peculiarità che gli si prospettano nello specifico caso clinico. In tale caso, la condotta sarà soggettivamente rimproverabile, in ambito penale, solo quando l’errore sia non lieve. Non solo. Potrà pure accadere che, sebbene in relazione alla patologia trattata le linee guida indichino una determina strategia, le già evocate peculiarità dello specifico caso suggeriscano addirittura di discostarsi radicalmente dallo standard, cioè di disattendere la linea d'azione ordinaria. Una tale eventualità può essere agevolmente ipotizzata, ad esempio, in un caso in cui la presenza di patologie concomitanti imponga di tenere in conto anche i rischi connessi alle altre affezioni e di intraprendere, quindi, decisioni anche radicalmente eccentriche rispetto alla prassi ordinaria. Anche in tale ambito trova applicazione la nuova normativa”.

Ciò che contraddistingue il ruolo delle linee guida nella nuova legge, rispetto alla genericità che ne caratterizzava il richiamo nell’abrogato art. 3, comma 1, legge n. 189/2012, è costituito dalle modalità di elaborazione (affidate ai soggetti pubblici e privati indicati dall’art. 5 della legge 24/2017), di validazione da parte dell’Istituto Superiore di Sanità, di pubblicazione e di aggiornamento periodico.

Non appare viceversa scontato che dal nuovo assetto debba necessariamente scaturire un mutamento contenutistico delle linee guida: le quali pertanto, sebbene più accuratamente (?) elaborate e selezionate, resterebbero anche nel nuovo regime caratterizzate da un contenuto non prescrittivo, ma solo “suggestivo”: ciò che comporterebbe l’esclusione dell’ascrivibilità della violazione delle stesse alla categoria della colpa specifica.

Alla luce dei primi importanti arresti giurisprudenziali sulla legge Gelli-Bianco, si può affermare che l’esclusione di una natura strettamente prescrittiva delle linee guida sembra implicita nello stesso dato testuale dell’art. 6, comma 2, della legge n. 24/2017.

La legge, poi, rivolgendosi agli esercenti le professioni sanitarie, fa un apparente passo in avanti rispetto alla legge Balduzzi (che faceva generico riferimento alla figura dell’esercente la professione sanitaria, senza altre specificazioni), indicando anche le attività nel cui svolgimento essi sono chiamati a rispettare le previsioni normative: in base al medesimo art. 5 della nuova legge l’obbligo di attenersi alle cd. linee guida riguarda, infatti, gli esercenti che agiscano “nell’esecuzione delle prestazioni sanitari con finalità preventive, diagnostiche, terapeutiche, palliative, riabilitative e  di medicina legale”.

Le maggiori novità riguardano, però, il profilo della responsabilità penale dell’operatore sanitario.

Proprio sotto questo aspetto, la Gelli-Bianco ha introdotto nel codice penale una disposizione – l’art. 590 sexies c.p. – che ha finito per sollevare non pochi dubbi sul piano interpretativo, trattandosi di norma meno favorevole rispetto a quella contenuta nell’art. 3 della legge Balduzzi.

E invero, l’art. 590 sexies c.p. al primo comma così dispone: “se i fatti di cui agli articoli 589 e 590 – rispettivamente omicidio colposo e lesioni personali colpose – sono commessi nell’esercizio della professione sanitaria, si applicano le pene ivi previste salvo quanto disposto dal secondo comma”; il testo normativo prosegue chiarendo che “qualora l’evento si sia verificato a causa d’imperizia, la punibilità è esclusa quando sono rispettate le raccomandazioni previste dalle linee guida come definite e pubblicate ai sensi di legge ovvero, in mancanza di queste, le buone pratiche clinico assistenziali, sempre che le raccomandazioni previste dalle predette linee guida risultino adeguate alle specificità del caso concreto”.

Pertanto, ai sensi della disposizione appena citata, un operatore sanitario potrà essere imputato per i delitti di omicidio colposo o di lesioni colpose (resta fuori dalla disciplina il reato di interruzione colposa di gravidanza ex art. 17, legge n. 194/1978, che invece non risultava escluso dall’applicazione della legge Balduzzi) quando:

A)               non abbia applicato, per mancanza di conoscenza, le linee guida “certificate” dall’Istituto Superiore di Sanità in un caso in cui le stesse dovevano viceversa essere applicate;

B)                 abbia sbagliato, anche se non macroscopicamente, nell’esecuzione pratica delle linee guida “certificate” dall’istituto Superiore di Sanità correttamente individuate;

C)                si sia scrupolosamente attenuto alle linee guida “certificate” dal Istituto Superiore di Sanità ma, a causa della peculiarità del caso concreto e di fattori immediatamente riconoscibili, egli avrebbe comunque dovuto distanziarsene.

In un quadro normativo così delineato, è penalmente responsabile l’operatore sanitario che in modo involontario abbia cagionato la morte o la lesione del soggetto: la norma non distingue tra colpa grave e colpa lieve, lasciando intendere che il medico, anche in caso di colpa grave, possa risultare non punibile.

Ai fini dell’operatività della scriminante, allora, non è sufficiente che il medico si sia formalmente attenuto alle linee guida o raccomandazioni previste per quell’intervento chirurgico, ma deve esserci una valutazione da parte del medico in ordine al fatto che effettivamente quelle linee guida siano adeguate al caso di specie.

In ogni caso, il riferimento normativo è limitato esclusivamente all’imperizia (errore tecnico da parte del sanitario che ha agito al di fuori di quello che è il livello minimo di esperienza e di cultura medica: in pratica, mancanza di preparazione); resta ferma la responsabilità per negligenza (trascuratezza, mancanza di sollecitudine ovvero di un comportamento passivo che si traduce in una omissione di determinate precauzioni) e per imprudenza  (insufficiente ponderazione di ciò che l’individuo è in grado di fare, violazione di una regola di condotta).

In conclusione, dunque, stante l’attuale quadro normativo, l’operatore sanitario, affinché possa “minimizzare il rischio” di tenere condotte penalmente rilevanti ex artt. 589 e 590 c.p., dovrà:

a)                  informarsi costantemente sul contenuto delle linee guida “certificate” nell’ambito specialistico di riferimento;

b)                 nell’esercizio della professione seguire le linee guida in modo tassativo e non distanziarsi dalle stesse quando risultino adeguate alle specificità del caso concreto;

c)                  nell’ipotesi in cui la specificità del caso concreto imponga l’effettuazione di un’attività che si discosti dalle linee guida “certificate” appare opportuno trascrivere in cartella clinica le obiettive ragioni immediatamente percepibili che hanno imposto d’effettuare tale scelta.

 

L’individuazione della legge più favorevole

Il problema relativo ai profili intertemporali di applicazione della legge Gelli-Bianco è sicuramente uno degli snodi più complessi che l’interprete si è trovato ad affrontare con l’entrata in vigore della nuova normativa.

All’interno della IV Sezione Penale della Cassazione, infatti, è rapidamente sorto un contrasto su un aspetto problematico: “quale sia, in tema di responsabilità colposa dell’esercente la professione sanitaria per morte o lesioni, l’ambito applicativo della previsione di ‘non punibilità’ prevista dall'art. 590 sexies c.p., introdotta dalla legge 8 marzo 2017, n. 24”.

Le Sezioni Unite, investite della questione, si sono pronunciate il 21 dicembre 2017, intervenendo a dirimere i dubbi interpretativi sollevati da due precedenti sentenze sulla colpa medica che erano giunte a conclusioni tra loro fortemente contrastanti.

La prima pronuncia (Cass. pen., Sez. IV, 20 aprile 2017, n. 28187, De Luca-Tarabori) riguardava il caso di un concorso colposo nel delitto doloso da parte di un medico psichiatra, responsabile del piano riabilitativo redatto per un paziente e chiamato a rispondere, a titolo di colpa, dell’omicidio volontario da questi commesso, con un mezzo contundente, nel corso della convivenza con la vittima, che era stata collocata insieme all’imputato in una struttura residenziale a bassa soglia assistenziale. In questo caso, la sentenza di non luogo a procedere pronunciata nei confronti del medico ai sensi dell’art. 425 c.p.p. veniva ad essere oggetto di annullamento con rinvio della Cassazione, tra l’altro, “per il necessario raffronto con le linee guida del caso concreto anche nella prospettiva della operatività del decreto Balduzzi quale legge più favorevole”.

Nella motivazione in diritto, dopo l’enunciazione degli argomenti tesi a censurare il malgoverno della regola di giudizio propria dell’udienza preliminare e a riaffermare la configurabilità del concorso colposo nel delitto doloso (notoriamente avversata dalla dottrina, ma pacifica in giurisprudenza), il Collegio affronta la questione del novum legislativo, a beneficio non tanto del giudice del rinvio, quanto di quello del dibattimento.

Subito si sgombra il campo dalla lettura più “letterale” del testo normativo e dalla riferibilità dell’imperizia a errore nell’esecuzione. E si cita un esempio: “un chirurgo imposta ed esegue l’atto di asportazione di una neoplasia addominale nel rispetto delle linee guida e, tuttavia, nel momento esecutivo, per un errore tanto enorme quanto drammatico, invece di recidere il peduncolo della neoformazione, taglia un’arteria con effetto letale. In casi del genere, intuitivamente ed al lume del buon senso, non può ritenersi che la condotta del sanitario sia non punibile per il solo fatto che le linee guida di fondo siano state rispettate. Una soluzione di tale genere sarebbe irragionevole, vulnererebbe il diritto alla salute del paziente e quindi l'art. 32 Cost., si porrebbe in contrasto con i fondanti principi della responsabilità penale”.

Quanto alle linee guida, la sentenza afferma che esse “non indicano una analitica, automatica successione di adempimenti, ma propongono solo direttive generali, istruzioni di massima, orientamenti; e, dunque, vanno in concreto applicate senza automatismi, ma rapportandole alle peculiari specificità di ciascun caso clinico”; ed inoltre “esse non esauriscono la disciplina dell’ars medica. Da un lato, infatti, vi sono aspetti della medicina che non sono per nulla regolati da tale genere di direttiva. Dall’altro, pure nell’ambito di contesti che ad esse attingono, può ben accadere che si tratti di compiere gesti o di agire condotte, assumere decisioni che le direttive in questione non prendono in considerazione” (...) “in tali situazioni la considerazione della generica osservanza delle linee guida costituisce – si confida sia ormai chiaro – un aspetto irrilevante ai fini della spiegazione dell’evento e della razionale analisi della condotta ai fini del giudizio di rimproverabilità colposa. Insomma, razionalità e colpevolezza ergono un alto argine contro l’ipotesi che voglia, in qualunque guisa, concedere, sempre e comunque, l’impunità a chi si trovi in una situazione di verificata colpa per imperizia”. Tradotto in termini sintetici: il rispetto delle “linee guida” non può costituire una sorta di alibi per giustificare errori commessi per imperizia riferibili a comportamenti che non siano minutamente disciplinati dalle linee guida medesime.

E ancora, la sentenza in esame si ribella ulteriormente all’approccio interpretativo basato sul dato letterale attraverso il riferimento contenuto in una norma della stessa legge Gelli-Bianco «che alimenta ulteriormente e radicalizza i dubbi in ordine alla praticabilità dell’interpretazione di cui si discute. L’art. 7, comma 3, legge n. 24 del 2017 recita che “…il giudice, nella determinazione del risarcimento del danno, tiene conto della condotta dell’esercente la professione sanitaria ai sensi dell’art. 5 della presente legge e dell’art. 590-sexies del codice penale…”. Dunque, per effetto di tale richiamo della disciplina civile a quella penale, il solo fatto dell’osservanza di una linea guida, anche quando non rilevante ai fini del giudizio di responsabilità, non solo escluderebbe la responsabilità penale, ma limiterebbe pure la quantificazione del danno. Insomma, neppure l’ambito civilistico consentirebbe alla vittima di ottenere protezione e ristoro commisurati all’entità del pregiudizio subito; e l’esonero da responsabilità si amplierebbe ulteriormente».

Viene perciò proposto un ambito applicativo basato sull’esclusione di situazioni rispetto alle quali, in base ai principi anzidetti, non viene ritenuta praticabile la nuova disciplina, la quale pertanto non trova applicazione:

a) negli ambiti che, per qualunque ragione, non siano governati da linee guida;

b) nelle situazioni concrete in cui le suddette raccomandazioni debbano essere radicalmente disattese per via delle peculiari condizioni del paziente o per qualunque altra ragione imposta da esigenze scientificamente qualificate;

c) in relazione alle condotte che, sebbene collocate nell’ambito di approccio terapeutico regolato da linee guida pertinenti e appropriate, non risultino per nulla disciplinate in quel contesto regolativo, come nel caso (dianzi riportato) dell’errore nell’esecuzione materiale di atto chirurgico pur correttamente impostato secondo le raccomandazioni ufficiali. Con la conseguenza che resterebbe fuori dell’applicazione della novella legislativa l’ipotesi dell’errore esecutivo determinato da imperizia, pur nell’osservanza generale delle linee guida.

Quanto alla classificazione dell’ipotesi di “non punibilità” enunciata dall’art. 6, comma 2, della legge Gelli-Bianco, la sentenza Tarabori sembra escludere che possa parlarsi di una “causa di non punibilità” e propone al riguardo una diversa soluzione ermeneutica, affermando che “l’evocazione della punibilità va intesa come un atecnico riferimento al giudizio di responsabilità con riguardo alla parametrazione della colpa”.

Sul piano del diritto intertemporale, la sentenza Tarabori ricorda come l’art. 6 della legge Gelli-Bianco abbia abrogato l’art. 3, comma 1, della legge Balduzzi, che aveva escluso la rilevanza penale delle condotte connotate da colpa lieve in contesti regolati da linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica; ne consegue, secondo la sentenza in esame, che per i fatti anteriori all’entrata in vigore del nuovo regime trova ancora applicazione, ai sensi dell’art. 2, comma quarto, c.p., la citata normativa del 2012, in quanto più favorevole con riguardo alla limitazione della responsabilità ai soli casi di colpa grave.

In estrema sintesi, con la sentenza Tarabori:

1) vengono indicati solo i casi in cui è esclusa l’applicazione dell’art. 590 sexies c.p. (di modo che l’area di applicazione della nuova disposizione dovrebbe essere individuata “per sottrazione”);

2) viene esclusa, nonostante il dato testuale, la causa di non punibilità, vista invece come regola di parametrazione della colpa;

3) la legge Gelli-Bianco è considerata sempre come disciplina meno favorevole della legge Balduzzi; quindi è esclusa l’applicabilità retroattiva in mitius;

4) vi è un richiamo all’art. 2236 c.c. come regola di esperienza valida anche in campo penale, in quanto espressione di un principio di razionalità.

Ma la sentenza in esame non è andata esente da critiche. In specie sono state enucleate le seguenti criticità:

- una sostanziale interpretatio abrogans della nuova legge perché non è del tutto chiaro a quali casi si riferisca la “non punibilità” introdotta dal legislatore;

- una conseguente frizione con il principio costituzionale di legalità (non ci si spiegherebbe perché il legislatore sia intervenuto, né la sentenza lo chiarisce);

- un insanabile contrasto con la lettera della legge (che, sia pure in nome di un’interpretazione costituzionalmente orientata, viene del tutto disattesa).

La seconda sentenza (Cass. pen., Sez. IV, 19 ottobre 2017, n. 50078, Cavazza), invece, afferiva a un caso di doppia pronuncia conforme di condanna, nei confronti di un medico che aveva effettuato un intervento di lifting del sopracciglio, cagionando al paziente una permanente diminuzione della sensibilità in un punto della zona frontale destra per la lesione del corrispondente tratto di nervo. In questo caso, infatti, la Cassazione ha dichiarato la prescrizione del reato, rilevando che “la condotta del sanitario, descritta dai giudici di merito come gravemente imperita, non poteva godere della causa di non punibilità prevista dalla Gelli-Bianco sol perché nella motivazione della sentenza non si affrontava il tema dell’eventuale individuazione di corrette linee-guida, omissione non più emendabile per il sopravvenire della causa di estinzione; non poteva neppure beneficiare della previsione liberatoria della legge Balduzzi, data la accertata ‘gravità’ della colpa e dell’‘errore inescusabile’, come plasmato dalla giurisprudenza della Cassazione con riferimento tanto alla scelta del sapere appropriato quanto al minimo di correttezza nella fase esecutiva”.

Nel giro di pochi mesi, dunque, la Cassazione torna sul problema dell’interpretazione della legge Gelli-Bianco, in modo per molti versi divergente da quello della sentenza Tarabori.

Nella parte in diritto, e sulla scorta dei motivi di ricorso, la sentenza in esame muove – per quanto d’interesse in questa sede – da un utile richiamo alla nozione di “colpa grave” fissata dalla giurisprudenza di legittimità, che in ambito sanitario “è configurabile nel caso di una ‘deviazione ragguardevole rispetto all’agire appropriato’ [cfr., efficacemente, Sez. 4, n.22281 del 15/04/2014, Cavallaro, Rv. 262273], ossia dell’errore inescusabile, che trova origine o nella mancata applicazione delle cognizioni generali e fondamentali attinenti alla professione o nel difetto di quel minimo di abilità e perizia tecnica nell’uso dei mezzi manuali o strumentali adoperati nell’atto operatorio e che il medico deve essere sicuro di poter gestire correttamente o, infine, nella mancanza di prudenza o di diligenza, che non devono mai difettare in chi esercita la professione sanitaria [cfr. in termini, Sez. 4, n. 9923 del 19/01/2015, p.c. Donatelli in proc. Marasco]”.

Di seguito si osserva che, nella vicenda in esame, “il profilo di colpa è stato individuato nella imperizia nella concreta esecuzione dell’intervento e non nella scelta dello stesso, imperizia che aveva determinato la lesione del nervo sovra orbitario nel corso della sua esecuzione”. Perciò nella fattispecie, riferita a condotte antecedenti l’entrata in vigore della legge Gelli-Bianco, si pone il problema “dell’applicabilità del novum normativo, se ritenuto più favorevole”; e, con esso, quello di stabilire “quale sia la portata della riforma e quali ne siano gli effetti nella fattispecie in esame”.

La sentenza Cavazza fissa alcuni punti fermi muovendo dalla dizione testuale dell’art. 6 della legge n. 24/2017.

In primo luogo, “è stata abrogata la disciplina penale relativa alla depenalizzazione della colpa lieve della legge Balduzzi, essendo stato abrogato l’intero comma 1 dell’art. 3. Non si pone più pertanto un problema di grado della colpa, salvo casi concreti in cui la legge Balduzzi possa configurarsi come disposizione più favorevole per i reati consumatisi sotto la sua vigenza coinvolgenti profili di negligenza ed imprudenza qualificati da colpa lieve (per ultrattività del regime Balduzzi più favorevole sul punto)”.

In secondo luogo, sempre in ossequio al dato letterale della novella, la sentenza in esame precisa che “il legislatore ha ritenuto di limitare l’innovazione alle sole situazioni astrattamente riconducibili alla imperizia, cioè al profilo di colpa che si fonda sulla violazione delle leges artis, che ha ritenuto non punibili neanche nell’ipotesi di colpa grave”.

Si affronta poi lo spinoso tema della “obiezione di fondo secondo la quale in presenza di ‘colpa grave’, sarebbe oltremodo difficile ipotizzare come sussistenti le condizioni concorrenti previste per l’impunità del sanitario, nel senso che sembrerebbe difficile conciliare il grave discostamento del sanitario dal proprium professionale con il rispetto delle buone pratiche clinico assistenziali e, soprattutto, decisivamente, che possa conciliarsi la colpa grave con un giudizio positivo di adeguatezza delle linee guida al caso concreto”. In proposito, la sentenza Cavazza replica opponendo “il concorrente rilievo della lettera e della finalità della legge: sotto il primo profilo, il legislatore, innovando rispetto alla legge Balduzzi, non attribuisce più alcun rilievo al grado della colpa, così che, nella prospettiva del novum normativo, alla colpa grave non potrebbe più attribuirsi un differente rilievo rispetto alla colpa lieve, essendo entrambe ricomprese nell’ambito di operatività della causa di non punibilità; sotto l’altro concorrente profilo, giova ribadire che con il novum normativo si è esplicitamente inteso favorire la posizione del medico, riducendo gli spazi per la sua possibile responsabilità penale, ferma restando la responsabilità civile”.

Perciò, prosegue la pronunzia in esame, quella introdotta dalla legge Gelli-Bianco è una vera e propria causa di non punibilità, in cui “la rinuncia alla pena nei confronti del medico si giustifica nell’ottica di una scelta del legislatore di non mortificare l’iniziativa del professionista con il timore di ingiuste rappresaglie mandandolo esente da punizione per una mera valutazione di opportunità politico criminale, al fine di restituire al medico una serenità operativa così da prevenire il fenomeno della cd. medicina difensiva”; quale ulteriore scostamento rispetto alla sentenza Tarabori, si afferma che la condotta non punibile caratterizzata da imperizia “non deve essersi verificata nel momento della scelta della linea guida, giacché non potrebbe dirsi in tal caso di essersi in presenza della linea guida adeguata al caso di specie, bensì nella fase ‘esecutiva’ dell'applicazione”.

Vi è, invero, il dubbio che la scelta del legislatore possa porsi in contrasto con principi di rango costituzionale, in specie ex art. 3 Cost. (si osserva che “potrebbe in vero dubitarsi della coerenza di una scelta di non punibilità dell’imperizia grave e invece della persistente punibilità di una negligenza lieve”), ma nella specie la questione difetta del requisito della rilevanza e non consente perciò di approdare a un provvedimento di remissione alla Consulta.

Ai fini dell’indagine sull’applicazione intertemporale della nuova disposizione, da quanto precede si ricava il principio in base al quale il secondo comma dell’art. 590 sexies c.p., introdotto dalla legge Gelli-Bianco, è norma più favorevole rispetto all’art. 3, comma 1, della Balduzzi, in quanto prevede una causa di non punibilità dell’esercente la professione sanitaria collocata al di fuori dell’area di operatività della colpevolezza, operante – ricorrendo le condizioni previste dalla disposizione normativa (rispetto delle linee guida o, in mancanza, delle buone pratiche clinico-assistenziali, adeguate alla specificità del caso) – nel solo caso di imperizia e indipendentemente dal grado della colpa, essendo compatibile il rispetto delle linee guida e delle buone pratiche con la condotta (anche gravemente) imperita nell’applicazione delle stesse.

Riassumendo, la sentenza Cavazza:

1) propone un’interpretazione letterale della legge Gelli-Bianco;

2) ravvisa nell’art. 6, comma 2, una causa di non punibilità;

3) afferma che la causa di non punibilità opera limitatamente al caso di imperizia, quando siano rispettate le linee guida validamente selezionate in rapporto al caso di specie, ma l’errore determinato da colpa (anche grave) interviene nella fase esecutiva.

Anche la sentenza Cavazza, peraltro, non è andata esente da critiche. In particolare si censurano:

- l’eccessiva latitudine della portata della causa di non punibilità, anche in caso di colpa grave (con conseguente «vulnus» del principio di pari responsabilità);

- il contrasto della non punibilità (anche) in caso di colpa grave con il principio costituzionale del diritto alla salute e con le esigenze di ristoro della persona offesa, correlate dall’art. 7 della legge alla responsabilità penale ex art. 590 sexies c.p.

In sostanza, mentre nella prima sentenza è la previgente disciplina a essere considerata più favorevole, nella misura in cui la stessa escludeva la responsabilità penale per le condotte connotate da colpa lieve ed era ancorata alle linee guida accreditate dalla comunità scientifica (rispetto alla legge Gelli che, come chiarito, elimina la distinzione tra colpa grave e colpa lieve e detta una nuova e ben più articolata disciplina in relazione alle linee guida di riferimento); nella seconda, invece, si individua come più favorevole la nuova disciplina, in ragione del fatto che essa prevede una causa di non punibilità dell’esercente la professione sanitaria “operante, ricorrendo le condizioni previste dalla disposizione normativa (rispetto delle linee guida o, in mancanza, delle buone pratiche clinico-assistenziali adeguate alla specificità del caso) nel solo caso di imperizia, indipendentemente dal grado della colpa”.

La sentenza risolutiva delle Sezioni Unite (Cass. pen., Sez. Un., 21 dicembre 2017 – 22 febbraio 2018, n. 8770, Mariotti) coglie gli aspetti condivisibili dell’una e dell’altra pronuncia e interviene a dirimere il contrasto ermeneutico, offrendo una “sintesi interpretativa complessiva” delle stesse.

Il caso Mariotti riguarda un medico chirurgo al quale era stato addebitato di avere colposamente ritardato la diagnosi di “sindrome da compressione della cauda equina”, e di avere così determinato il ritardo nell’esecuzione di un intervento chirurgico da parte di altro sanitario, con conseguente insorgere di esiti lesivi a carico del paziente.

Nel rispondere al quesito circa l’ambito di applicazione della previsione di non punibilità introdotta dal nuovo art. 590 sexies c.p., introdotto dalla legge Gelli-Bianco, le Sezioni Unite rilevano innanzitutto che il contrasto fra le sentenze Tarabori e Cavazza non riguarda la connotazione delle linee guida (che rimangono qualificate come un condensato di acquisizioni scientifiche, tecnologiche e metodologiche, frutto di un’accurata selezione nei diversi ambiti operativi, ma “senza alcuna pretesa di immobilismo e senza idoneità ad assurgere al livello di regole vincolanti”, e che – dunque – non costituiscono “veri e propri precetti cautelari, capaci di generare allo stato attuale della normativa, in caso di violazione rimproverabile, colpa specifica, data la necessaria elasticità del loro adattamento al caso concreto”).

L’operazione ermeneutica operata dalle Sezioni Unite si propone di partire dal dato letterale per superarlo, in funzione di un’esegesi costituzionalmente orientata e in vista di una soluzione che, diversamente dall’esplicita richiesta del Procuratore generale d’udienza, non devolva la questione alla Corte Costituzionale, anche per l’irrilevanza della questione stessa nel caso di specie (in relazione al quale si era infatti contestata la violazione delle linee guida valide nel caso di specie).

In tale quadro, la sentenza Mariotti muove dalla considerazione che l’adeguatezza delle linee guida al caso concreto, in base alla quale si pone il problema di valutare la non punibilità del medico, dev’essere valutata ex ante, non ex post. Indi, viene ristretto il campo d’osservazione, che riguarda solo il caso in cui il sanitario segua le indicazioni rivenienti dalle linee guida adeguate al caso di specie, ma agisca con imperizia (non anche con negligenza o imprudenza).

Ciò chiarito, la sentenza Mariotti indica, quale punto debole della sentenza Tarabori, la sostanziale esclusione di spazi operativi per la non punibilità prevista dall’art. 6 della novella legislativa, al punto di negare la capacità semantica dell’espressione “causa di non punibilità” (logica conseguenza, osservano le Sezioni Unite, sarebbe stata quella di dedurre la questione di legittimità costituzionale per violazione del principio di legalità).

La censura mossa, invece, alla sentenza Cavazza è l’opposto speculare: secondo il Collegio apicale, infatti, questa sentenza si preoccupa di rispettare la lettera della legge al punto di estenderne in modo eccessivo la portata, qualificando come non punibile il comportamento  caratterizzato da imperizia, qualora il medico si sia attenuto alle linee guida adeguate al caso di specie, indipendentemente dal grado della colpa. Grado della colpa che va, invece, reintrodotto (limitando quindi la non punibilità alla colpa lieve) sulla scorta dei precedenti storici e giurisprudenziali riguardanti la colpa medica nonché – lo rivela per inciso un passaggio della motivazione della sentenza – il richiamo alla limitazione della responsabilità del medico in ambito civilistico (art. 2236 c.c.) e al suo riconosciuto ruolo nell’interpretazione giurisprudenziale.

L’ubi consistam dell’imperizia non sta, sempre secondo le Sezioni Unite Mariotti, nella selezione delle linee guida (che devono indiscutibilmente essere quelle adeguate al caso di specie), ma non può che collocarsi nel momento esecutivo, ossia nella fase di attuazione delle stesse.

In base al principio di diritto formulato dalle Sezioni Unite, l’esercente la professione sanitaria risponde, a titolo di colpa, per morte o lesioni personali derivanti dall’esercizio di attività medico-chirurgica:

a) se l’evento si è verificato per colpa (anche “lieve”) da negligenza o imprudenza;

b) se l’evento si è verificato per colpa (anche “lieve”) da imperizia: 1) nell’ipotesi di errore rimproverabile nell’esecuzione dell’atto medico, quando il caso concreto non è regolato dalle raccomandazioni delle linee-guida o, in mancanza, dalle buone pratiche clinico-assistenziali; 2) nell’ipotesi di errore rimproverabile nell’individuazione e nella scelta di linee-guida o di buone pratiche che non risultino adeguate alla specificità del caso concreto, fermo restando l’obbligo del medico di disapplicarle quando la specificità del caso renda necessario lo scostamento da esse;

c) se l’evento si è verificato per colpa (soltanto “grave”) da imperizia, nell’ipotesi di errore rimproverabile nell’esecuzione, quando il medico, in detta fase, abbia comunque scelto e rispettato le linee-guida o, in mancanza, le buone pratiche che risultano adeguate o adattate al caso concreto, tenuto conto altresì del grado di rischio da gestire e delle specifiche difficoltà tecniche dell’atto medico.

Ciò posto, le Sezioni Unite affrontano poi, specificamente, il tema concernente la individuazione della legge più favorevole, raffrontando il contenuto precettivo dell’art. 590 sexies c.p. con quello dell’art. 3 abrogato.

 In primo luogo, il vecchio art. 3 risulta più favorevole in relazione alle contestazioni per comportamenti del sanitario – commessi prima della entrata in vigore della legge Gelli-Bianco – connotati da negligenza o imprudenza, con configurazione di colpa lieve, che solo per il decreto Balduzzi erano esenti da responsabilità quando risultava provato il rispetto delle linee-guida o delle buone pratiche accreditate.

In secondo luogo, nell’ambito della colpa da imperizia, l’errore determinato da colpa lieve, che sia caduto sul momento selettivo delle linee-guida e cioè su quello della valutazione della appropriatezza della linea-guida era coperto dalla esenzione di responsabilità del decreto Balduzzi, mentre non lo è più in base alla novella, che risulta anche per tale aspetto meno favorevole.

In terzo luogo, sempre nell’ambito della colpa da imperizia, l’errore determinato da colpa lieve nella sola fase attuativa andava esente per il decreto Balduzzi ed è oggetto di causa di non punibilità in base all’art. 590 sexies c.p., essendo, in tale prospettiva, ininfluente, in relazione alla attività del giudice penale che si trovi a decidere nella vigenza della nuova legge su fatti verificatisi antecedentemente alla sua entrata in vigore, la qualificazione giuridica dello strumento tecnico attraverso il quale giungere al verdetto liberatorio.

In definitiva, l’intervento delle Sezioni Unite ha comportato una sorta di “mediazione” (o, se si vuole, di “compromesso”) tra le opzioni interpretative delle due sentenze in contrasto (la Tarabori e la Cavazza), individuando una terza via, che recupera alcune indicazioni provenienti dalle due pronunzie e propone, tuttavia, un parziale scostamento dal dato letterale, in nome di un’interpretazione costituzionalmente orientata, limitando la non punibilità ai comportamenti “imperiti” caratterizzati da colpa lieve.

Una parte della dottrina ha salutato in termini complessivamente positivi la decisione del Supremo Collegio: si è ad esempio affermato, in un recente articolo, che “quella adottata dalle Sezioni unite costituisce, probabilmente, la soluzione più ragionevole concessa dal dato legale, l’unica che garantisca alla norma un margine applicativo, senza tuttavia incappare nei legittimi sospetti di costituzionalità che avvolgevano la ricostruzione della sentenza ‘Cavazza’. Sotto questo profilo, sembra giusto ribadire come la ricerca di un’interpretazione conforme a Costituzione fosse una strada quasi obbligata per le Sezioni unite[41].

Assai più critica si dimostra un’altra parte della dottrina, che, commentando la decisione apicale (una “terza eclettica lettura della disciplina”), manifesta la propria contrarietà alla soluzione proposta dalle Sezioni unite, che “sono state colte da una così potente nostalgia dell’antico, degli approdi sicuri conseguiti nel passato, che hanno compiuto un’operazione di inusitata audacia. Hanno letteralmente resuscitato Balduzzi, sebbene essa sia stata espressamente abrogata dalla legge n. 24; e hanno affermato che la responsabilità penale dell’esercente le professioni sanitarie è ancora fondata sulla distinzione tra colpa lieve e colpa grave che di quella abrogata disciplina costituiva uno dei cardini[42].

E’ comunque generalizzata la critica alla soluzione, fatta propria da SS.UU. Mariotti, di recuperare il concetto di colpa grave. Infatti, si osserva, la sentenza Mariotti, “se, da un lato, si orienta per una interpretazione costituzionalmente conforme, dall’altro lato, però, si pone in fortissima tensione con la legalità nel momento in cui torna ad attribuire un ruolo ermeneutico alle gradazioni della colpa”: gradazioni che, nella legge Gelli-Bianco, risultano assenti[43]. Tant’è che, secondo altro Autore, «il dubbio è se possa un’interpretazione “conforme a Costituzione” spingersi sino al punto di introdurre nel corpo di una fattispecie dal tenore letterale inequivoco (seppure di dubbia costituzionalità) un elemento nuovo e ulteriore (la distinzione tra gradi di imperizia), con effetti limitativi della punibilità (estendendo la punibilità a condotte di imperizia grave altrimenti esenti), in luogo della strada maestra, rappresentata dal contributo razionalizzante della Corte costituzionale»[44].

Un ulteriore argomento su cui si fondano le critiche alla sentenza Mariotti riguarda la carenza di fondamento giuridico della reintroduzione del grado della colpa, basata com’è essenzialmente su elementi di natura storica (e contrastante con le risultanze dei lavori parlamentari, durante i quali, mentre in un primo tempo venne conservato il riferimento testuale alla colpa grave, tale riferimento fu espressamente escluso nella fase conclusiva dei lavori) nonché su un malinteso recupero dell’art. 2236 c.c., che pure aveva incontrato in un certo periodo storico lo sfavore della giurisprudenza penale (in virtù della sua natura di norma “eccezionale”) e che, ai tempi della legge Balduzzi, aveva evidenziato un problema di disparità di trattamento a sfavore di altre categorie professionali di esercenti di attività pericolose, alle quali pure l’art. 2236 c.c. trova applicazione[45].

Oltre a criticare l’attribuzione, da parte della sentenza Mariotti, di un ruolo decisivo (ai fini della punibilità) alla gravità della colpa (che in realtà la legge non prevede), si sono levate ulteriori critiche alla contraddittoria enunciazione del criterio distintivo del grado della colpa, che la pronunzia a Sezioni Unite ha, di fatto, ancorato al parametro dell’agente modello: un parametro che però serve a contrassegnare il comportamento colposo rispetto a quello che non lo è, e non anche il “grado” della colpa (“il medico modello non è mai imperito, neppure lievemente”)[46].

 

Le attuali problematiche di natura sostanziale

Tralasciando l’intricata questione relativa al rispetto delle linee guida pur nell’ambito di una condotta caratterizzata da imperizia, occorre qui nuovamente soffermarsi sulla diversa questione dei rapporti fra la nozione di “imperizia” e le contigue nozioni di “imprudenza” e di “negligenza”.

Sotto il vigore della legge Balduzzi, accanto a sentenze nelle quali si riteneva necessario accertare “se vi sia stato un errore determinato da una condotta negligente o imprudente” pur a fronte del rispetto di linee guida accreditate presso la comunità scientifica (Cass. pen., Sez. IV, 5 novembre 2013 – 5 maggio 2014, n. 18430)[47], ve ne erano altre secondo le quali la disciplina di cui all’art. 3 della legge Balduzzi, pur trovando terreno d’elezione nell’ambito dell’imperizia, può tuttavia venire in rilievo anche quando il parametro valutativo della condotta dell’agente sia quello della diligenza (Cass. pen., Sez. IV, 9 ottobre 2014 – 17 novembre 2014, n. 47289), o comunque in ipotesi di errori connotati da profili di colpa generica diversi dall’imperizia (Cass. pen., Sez. IV, 11 maggio 2016 – 6 giugno 2016, n. 23283).

Nell’assetto tracciato dalla legge Gelli-Bianco, pur con tutte le differenze connesse al nuovo statuto della colpa professionale in ambito sanitario, assume rilevanza necessariamente decisiva il ruolo della nozione di imperizia, espressamente qualificato dal legislatore come funzionale alla valutazione del comportamento del medico alla luce di tale nozione.

Ciò rende ineludibile l’esigenza di precisare i contorni della nozione di imperizia.

Mentre, infatti, in base al primo comma dell’art. 6 della nuova legge, il comportamento del sanitario viene adesso ricondotto (di regola) nella generale disciplina della colpa penale, il secondo comma dell’art. 6 prevede, come si è visto, una deroga qualora l’evento si sia verificato a causa di imperizia: in tale ipotesi la punibilità è esclusa, purché siano “rispettate le raccomandazioni previste dalle linee guida come definite e pubblicate ai sensi di legge ovvero, in mancanza di queste, le buone pratiche clinico-assistenziali, sempre che le raccomandazioni previste dalle predette linee guida risultino adeguate alle specificità del caso concreto”.

Come si è avuto modo di vedere, un atteggiamento di maggiore indulgenza verso le condotte caratterizzate da imperizia (rispetto a quello riservato alle condotte contraddistinte da negligenza o imprudenza) risale nel tempo alla giurisprudenza della Corte Costituzionale, che nella già menzionata sentenza n. 166/1973 giustificava l’innalzamento alla soglia della “colpa grave” del grado minimo della responsabilità del sanitario in caso di imperizia, evidenziando che di tale più benevola considerazione non fossero, di contro, meritevoli le “non ponderate decisioni o riprovevoli inerzie del professionista” (ossia, appunto, le condotte caratterizzate da imprudenza o negligenza).

Resta il fatto che la distinzione tra imperizia da un lato, negligenza e imprudenza dall’altro presenta più di una difficoltà, specialmente nei non pochi casi in cui siano difficilmente individuabili gli evanescenti confini fra tali nozioni, come accade nelle ipotesi in cui vi siano margini di sovrapposizione o di compresenza fra di esse.

Quanto al grado della colpa, si è detto che l’art. 3, comma 1, della legge Balduzzi prevedeva che il sanitario che, nello svolgimento della propria attività, si attenesse a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica, non rispondeva penalmente per colpa lieve. Ciò stava a significare una limitazione della responsabilità, in termini di grado di colpa, per coloro i quali avessero operato nel rispetto delle linee guida o delle buone pratiche; mentre per gli altri esercenti le professioni sanitarie, che da tali linee d’indirizzo si discostavano, tale limitazione non era prevista e pertanto essi rispondevano quale che fosse il grado di colpa loro imputabile.

Con la riforma, invece, sparisce il riferimento testuale al grado della colpa.

Non si fa, quindi, menzione di alcuna distinzione fra “colpa lieve”, “colpa grave” o “colpa intermedia”, ma si opera unicamente – con il nuovo art. 589 sexies c.p. – un rinvio alle regole generali in tema di omicidio o lesioni colpose, prevedendo però, quale deroga al principio generale, quella che è stata qualificata come una causa di non punibilità (piuttosto che una limitazione del grado della colpa) nel caso in cui concorrano le seguenti condizioni: 1) l’evento  si  sia  verificato  a  causa  di  imperizia dell’esercente la professione sanitaria; 2) siano  rispettate  le  raccomandazioni previste dalle linee guida come definite e  pubblicate  ai  sensi  di legge  ovvero,   in   mancanza   di   queste,   le   buone   pratiche clinico-assistenziali; 3) le raccomandazioni  previste  dalle predette linee guida risultino adeguate alle  specificità  del  caso concreto.

Visto che l’art. 6, comma 2, della legge Gelli-Bianco assicura la non punibilità del sanitario, qualora l’evento si sia verificato per sua imperizia, a condizione che le raccomandazioni contenute nelle linee guida (osservate dal sanitario medesimo) fossero adeguate alle specificità del caso concreto, lo spazio entro il quale può collocarsi il comportamento del medico caratterizzato da imperizia “non punibile” viene circoscritto dalla circostanza che il sanitario, per beneficiare della causa di non punibilità, deve avere rispettato le raccomandazioni contenute nelle linee guida sempre che esse siano adeguate alle specificità del caso concreto.

In questo fattore condizionante, introdotto dal nuovo testo di legge, si annida però un potenziale elemento di disturbo.

Infatti, secondo la tradizionale impostazione (che, come si è detto, non viene necessariamente smantellata dalla novella legislativa) le linee guida costituiscono suggerimenti di massima a carattere non prescrittivo (si è visto come la stessa legge faccia riferimento alle “raccomandazioni” da esse ricavabili).

Secondo tale impostazione viene diffusamente riconosciuto, tanto in dottrina quanto in giurisprudenza, che le linee guida fanno salva la scelta del medico di adottare la linea di condotta che, in base alla sua competenza ed esperienza, egli ritenga conforme alle peculiari necessità del caso clinico.

Ci si chiede, allora, quale spazio residuerà per individuare (e considerare non punibile) un comportamento sanitario aderente alle linee guida intese non solo come raccomandazioni generali, ma altresì come indicazioni adeguate alle specificità del caso concreto (ossia a quelle specificità che vengono riservate alla competenza e all’esperienza del sanitario nelle sue scelte professionali), e risulti nondimeno caratterizzato da imperizia.

Per dare un significato a questa precisazione legislativa, non sembra che si possa pensare a un comportamento del sanitario che sia, in ogni sua parte, “adeguato alle specificità del caso concreto”: tale soluzione ermeneutica finirebbe per condurre ad un’interpretatio abrogans, in quanto sarebbe, per l’appunto, ben difficile pensare che un tale comportamento conforme in ogni sua parte alle leges artis, non solo sul piano generale, ma anche sul piano dell’aderenza alle esigenze del caso specifico, possa al tempo stesso essere viziato da imperizia. Quest’ultima dovrebbe quindi collocarsi al di fuori (sebbene nel contesto) delle raccomandazioni contenute nelle linee guida: le quali, esse sì, nella loro portata generale, dovranno essere valutabili come adeguate al caso di specie, senza che ciò impedisca tuttavia che il sanitario che le abbia rispettate esegua, ad esempio, in modo errato (ossia “imperito”) una qualche attività non specificamente disciplinata, ovvero ponga in essere altre e ulteriori condotte professionali (attive od omissive)  in modo colposo e caratterizzato da imperizia.

Solo a queste condizioni sembrerebbe potersi prospettare un’interpretazione che consenta di ipotizzare comportamenti colposi (per imperizia) che siano considerati non punibili alla stregua della nuova legge, collocandosi cioè al di fuori, ma nel medesimo contesto di condotte rispettose delle raccomandazioni contenute nelle linee guida adeguate alle specificità del caso concreto.

Ancora.

Secondo la locuzione letterale utilizzata dal legislatore, quella introdotta dall’art. 6, comma 2, della legge Gelli-Bianco è classificabile fra le cause di non punibilità.

Si tratta, però, di vedere se essa sia qualificabile come causa di non punibilità in senso stretto; oppure come causa di giustificazione (o scriminante, che dir si voglia); o, ancora, come appartenente ad altra categoria.

E’ noto che la distinzione dottrinaria tra cause di giustificazione e cause di non punibilità (o di esclusione della punibilità) sta nel fatto che, in presenza di un elemento scriminante – es. la legittima difesa, lo stato di necessità, l’adempimento di un dovere ecc. – il fatto tipico è lecito, pur se caratterizzato da un contenuto offensivo di un interesse protetto; mentre nel caso delle cause di non punibilità (ad esempio si pensi alla particolare tenuità del fatto di cui all’art. 131 bis c.p.) il fatto tipico non è lecito, anche se ragioni di opportunità inducono l’ordinamento a non punirlo,e può comportare infatti conseguenze giuridiche diverse da quelle penali. Perciò, ad esempio, nell’ipotesi in cui si versi in una causa di giustificazione, la liceità del comportamento si estende ai concorrenti; nel caso in cui si versi in una causa di non punibilità in senso stretto (in particolare ove si tratti di una causa personale di non punibilità, della quale cioè beneficia un determinato soggetto), il comportamento dell’eventuale compartecipe resta comunque illecito.

Tendenzialmente, quindi, la non punibilità in senso stretto comporta una limitata e rigorosa applicazione al caso specifico e al singolo soggetto, stante la sua natura derogatoria ed eccezionale; le cause di giustificazione, invece, contengono in sé un elemento oggettivo di esclusione dell’antigiuridicità della condotta, che – ove ne sia accertata la presenza – rende la stessa pienamente lecita, e non solo penalmente irrilevante.

La questione, trasferita all’ambito di applicazione della legge Gelli-Bianco, rimane aperta, e va fin d’ora detto che anch’essa ha dato luogo a interpretazioni divergenti da parte della giurisprudenza.

 

 

Conclusioni e prospettive

Il rapido succedersi di tre sentenze contenenti altrettante interpretazioni (fra loro difformi) della stessa disposizione di legge, con il contrasto verificatosi all’interno della Quarta Sezione penale e la relativa “composizione” da parte delle Sezioni Unite (il tutto nel giro di pochi mesi dall’entrata in vigore della l. n. 24/2017), la dice lunga sulla qualità – che ci si limita eufemisticamente a qualificare come non eccelsa – del prodotto legislativo del quale la Cassazione si è dovuta occupare, oltretutto in una delicata materia come quella della colpa penale medica.

Le tre sentenze sopra richiamate (la Tarabori, la Cavazza e la Mariotti), pur nel meritevole intento di cercare di dare un senso alla disposizione contenuta nell’art. 590 sexies del codice penale, sono pervenute a conclusioni tra loro assai diverse, ma che a conti fatti sono state ritenute non soddisfacenti in tutti e tre i casi. E, del resto, certamente non è casuale il fatto che in almeno due delle tre sentenze suddette (la Cavazza e la Mariotti) si fa esplicito riferimento a profili di incostituzionalità della disposizione di nuovo conio, profili la cui emersione era stata addirittura sollecitata avanti le Sezioni Unite dal rappresentante d’udienza della Procura Generale, e che tuttavia non hanno condotto a sollevare la questione di legittimità costituzionale in nessuno dei casi considerati, essenzialmente per difetto di rilevanza della questione nel giudizio in corso.

Del resto, se si prende la legge così com’è e la si applica “senza se e senza ma”, come sostanzialmente è stato fatto con la sentenza Cavazza, che ne ha dato un’interpretazione scrupolosamente aderente alla lettera della legge (e che, pur riconoscendo in essa la sussistenza di violazioni di principi costituzionali, non ha potuto trarne le debite conseguenze per difetto di rilevanza), emerge una chiara “frizione” del testo dell’art. 590 sexies c.p. con il principio di uguaglianza di cui all’art. 3 Cost. (nel senso che, mentre in caso di negligenza o di imprudenza qualunque comportamento colposo è passibile di sanzione penale, in caso di imperizia ciò non accade neppure per colpa grave, purché il sanitario si sia attenuto alle raccomandazioni di cui alle linee guida adeguate al caso concreto) e anche con il principio di tutela del diritto alla salute di cui all’art. 32 Cost. (nel senso che la legge conferisce al sanitario la “licenza” di agire anche con imperizia grave – purché “osservante” delle raccomandazioni suddette – sottraendolo in tal caso a sanzioni penali).

Se invece si guarda alla legge con occhi critici, occorre cercare un’alternativa alla sua applicazione letterale.

Un’alternativa che è stata cercata, sul piano interpretativo, sia dalla sentenza Tarabori, sia dalle Sezioni Unite con la sentenza Mariotti; si sono peraltro viste le critiche articolate sia rispetto alla soluzione delle SS.UU. di interpretare il contenuto della legge in malam partem (introducendo cioè una graduazione della colpa che non risulta esplicitata nel testo normativo e che, di fatto, limita la portata della causa di non punibilità in essa prevista); sia rispetto alla soluzione di “devitalizzarne” i contenuti escludendo (come sostanzialmente aveva fatto la sentenza Tarabori) la possibilità di configurare l’imperizia (anche) nel caso in cui il comportamento colposo cada sulla fase esecutiva (ciò che, come detto, è stato visto da alcuni come un’interpretatio abrogans non compatibile con l’intervento legislativo e con il principio di legalità e che, di fatto, rappresentava un caso di “eterogenesi dei fini” rispetto all’intenzione del legislatore, di segno probabilmente opposto).

L’alternativa suggerita dalla vicenda in esame (ed evocata da più Autori) sembrerebbe, piuttosto, essere quella del riconoscimento (e della denuncia, sollevando la relativa questione alla Consulta allorquando se ne presentino le condizioni) della scarsa tenuta costituzionale della norma in esame: non solo sotto i già visti profili di disparità e di contrasto con il diritto alla salute, ma anche sotto l’ulteriore profilo che sembra caratterizzarla, costituito dalla violazione del principio di legalità, declinato nei parametri della tassatività e della determinatezza (non solo e non tanto con riferimento all’omessa indicazione del grado della colpa nel caso di imperizia, quanto e soprattutto con riguardo alla scarsa conciliabilità fra colpa da imperizia e contemporanea adesione alle linee guida).

Questo, de iure condito (ossia fino a che il legislatore non metterà nuovamente mano alla questione).

In prospettiva, ed eventualmente de lege ferenda, pare opportuno rivolgere un appello to whom it may concern a tirare le somme dall’esperienza applicativa dei principi formatisi in dottrina e in giurisprudenza nonché delle leggi succedutesi in materia di colpa penale del sanitario.

Occorre ripensare il ruolo da assegnare alle linee guida e alle buone pratiche ai fini della responsabilità colposa del medico e, in generale, dell’esercente la professione sanitaria. Considerando la stringente necessità di caratterizzare la fattispecie concreta, a fronte della natura e delle finalità proprie delle leges artis in materia sanitaria, ci si può interrogare, ad esempio, sull’effettiva utilità del riconoscimento legislativo di un simile ruolo, in termini di espressa qualificazione penale del comportamento colposo del sanitario che se ne discosti; nonché sull’interazione tra linee guida (o buone pratiche) ed esigenze organizzative ed economiche degli enti e delle strutture sanitarie di riferimento, quale possibile punto di frizione di tali regole con i bisogni terapeutici del paziente nel singolo caso concreto.

Deve essere, poi, affrontata spassionatamente la questione dell’effettiva entità del fenomeno della “medicina difensiva” in relazione alla sua incidenza sulla relazione terapeutica fra paziente e sanitario: si tratta cioè di chiarire fino a che punto la necessità di contrastare la medicina difensiva risponda a esigenze reali, e da che punto in poi essa venga piuttosto “agitata” per lucrare previsioni legislative lato sensu de-responsabilizzanti.

Val la pena, infine, tener ben presente che la limitazione alla colpa grave di cui all’art. 2236 c.c. (spesso usato come criterio interpretativo anche in ambito penalistico) vale solo ed esclusivamente per le prestazioni che implichino la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà; con la conseguenza che è pure opportuno riflettere su quali prestazioni sanitarie rispondano effettivamente e concretamente a siffatte caratteristiche e, quindi, sull’opportunità di prevedere che il limite della colpa grave (anche) in ambito penale sia confinato a tali prestazioni e non si estenda a quelle routinarie o di non particolare complessità.

 

Profili processuali

Com’è noto, nelle indagini di colpa medica, riveste un ruolo centrale l’assunzione della prova scientifica, che rientra nella più ampia categoria della prova critica o logica, poiché si configura quale strumento che patendo da un fatto dimostrato, da un fatto noto, utilizza una legge scientifica per accertare l’esistenza di un altro fatto da provare e dunque di un fatto ignoto.

La prova scientifica trova ingresso nella fase investigativa, attraverso l’accertamento tecnico disposto dal Pubblico Ministero, quale “mezzo di ricerca della prova”, sebbene l’istituto sia disciplinato nel libro V, titolo V tra le attività del P.M. necessarie ai fini indicati dall’art. 326 c.p.p. (ossia per le determinazioni inerenti all’esercizio dell’azione penale).

Essa, pertanto, si differenzia nella fase processuale attraverso il meccanismo della perizia, disposta nel dibattimento ex art. 220 c.p.p., su richiesta di parte e ammessa dal Giudice ove ritenuta pertinente, rilevante, non sovrabbondante e legale.

Per quanto concerne la consulenza tecnica disposta dal P.M., quest’ultima potrà essere effettuata, a seconda dei casi, nelle forme dell’accertamento tecnico ripetibile ex art. 359 c.p.p. e art. 73 del D.lgs. del 28 luglio 1989, nr. 271 recante le norme di attuazione del codice di procedura penale (quando si tratti ad esempio di esaminare e valutare della documentazione sanitaria); oppure nelle forme  dell’accertamento tecnico irripetibile ex artt. 360 c.p.p., 116 e 117 del D.lgs. del 28 luglio 1989, nr. 271 delle norme di attuazione del codice di procedura penale (si pensi al classico esempio dell’ispezione cadaverica, dell’esame autoptico o, ancora, dell’accertamento relativo all’entità delle lesioni personali riportate dal paziente a seguito di un dato intervento o di un dato trattamento sanitario); nel qual caso il PM darà avviso senza ritardo alla persona sottoposta alle indagini, alla persona offesa ed ai rispettivi difensori del giorno, dell’ora e del luogo fissati per il conferimento dell’incarico e della facoltà loro spettante di nominare dei propri consulenti tecnici.

Ciò dal momento che difensori e consulenti tecnici di parte hanno diritto:

  1. di  assistere (e dunque di presenziare) al conferimento dell’incarico e, dunque, alla fase di formulazione del quesito tecnico da sottoporre al vaglio dello specialista;
  2. di partecipare agli accertamenti tecnici disposti (formulando osservazioni e riserve).

Del resto, trattandosi di accertamento tecnico irripetibile, i risultati conseguiti all’esito delle operazioni peritali saranno direttamente utilizzabile nel processo a fini di prova,  in deroga al principio in virtù del quale la prova si forma nel dibattimento.

Il recupero del contraddittorio, in fase di indagini, avviene proprio attraverso l’osservanza da parte del P.M. delle prescrizioni normative volte a garantire l’interlocuzione con le parti direttamente interessate – indagati e persone offese – su un atto che è destinato ad essere inserito ab initio nel fascicolo dibattimentale (art. 431, lett. b e c, c.p.p.).

Altro dato su cui porre attenzione nella fase investigativa: sia il P.M. che la persona sottoposta alle indagini, possono formulare riserva di promuovere incidente probatorio ai sensi dell’art. 392, comma 1, c.p.p., per acquisire dinnanzi al Giudice per le indagini preliminari e nel contraddittorio tra le parti quelle fonti di prova che rischiano di non poter essere acquisite nella sede naturale del dibattimento o di pervenirvi in stato di inquinamento o deterioramento, o ancora di determinare una sospensione del processo superiore a sessanta giorni.

E invero, la perizia su una persona, cosa o luogo soggetto a rapida modificazione rientra tra i casi tassativi disciplinati dall’art. 392 c.p.p., in particolare nell’ipotesi di cui al comma 1, lett. f e nell’ipotesi di cui al comma 2 della citata disposizione.

La riforma Orlando, entrata in vigore il 3 agosto 2017, è intervenuta pure sulla riserva di incidente probatorio, stabilendo che essa – una volta esercitata – deve essere seguita dalla effettiva instaurazione dell’incidente probatorio entro 10 giorni da parte dell’indagato, pena la perdita di efficacia della stessa.

Ed ancora, il P.M. e la persona sottoposta alle indagini possono, ai sensi dell’art. 392, comma 2, c.p.p., chiedere una perizia che se fosse disposta nel dibattimento ne potrebbe determinare una sospensione superiore a 60 giorni ovvero che comporti l’esecuzione di accertamenti o prelievi su persona vivente previsti dall’art. 224 bis c.p.p.

Ove l’indagato formuli riserva di incidente probatorio, il P.M. dispone che non si proceda agli accertamenti (in attesa che decorra il termine di 10 gironi entro il quale l’indagato deve richiedere l’incidente probatorio, pena la perdita di efficacia della riserva) salvo che questi accertamenti, se differiti, non possano più essere compiuti (art. 360, comma 4, c.p.p.): è il caso di evidenziare come la facoltà riconosciuta all’indagato potrebbe prestarsi a un suo utilizzo strumentale nelle situazioni in cui – dopo averne fatto espresso riserva – questi non sciolga in tempi ragionevoli la riserva assunta, promuovendo l’incidente probatorio.

Ecco perché la norma prevede, a garanzia dell’assunzione della fonte di prova, la possibilità che il P.M. proceda comunque al compimento di quegli accertamenti che – ove rinviati – non possano più essere effettuati.

Ove le prescrizioni dell’art. 360 non siano state rispettate (perché siano stati omessi gli avvisi di legge o – a fronte della riserva di incidente probatorio formulata dall’indagato – il P.M. abbia proceduto comunque all’accertamento tecnico prima che sia decorso il  termine di 10 giorni, in assenza delle condizioni stabilite dall’art. 360, comma 4, c.p.p.) le sanzioni previste dal legislatore sono quella della nullità di ordine generale deducibile ex art. 180 c.p.p. nel corso del giudizio di primo grado (in caso di omessa notifica degli avvisi) nonché quella dell’inutilizzabilità (patologica) dei risultati della prova così assunta (nel caso di mancato rispetto della riserva di incidente probatorio – salva la perdita di inefficacia della stessa – e di insussistenza delle condizioni di indifferibilità di cui al comma 4).

Nel processo penale, invece, la perizia è regolamentata negli articoli da 220 a 232 c.p.p. e nell’art. 508 c.p.p.: la sua formale collocazione tra i “mezzi di prova” consente di ritenere superata la vecchia questione, dibattuta in dottrina e giurisprudenza, circa la sua qualificazione processuale quale “prova”, “mezzo di prova” o “mezzo di valutazione della prova”.

Si ritiene in ogni caso che, al di là della scelta operata dal legislatore, la perizia si rivela essere un mezzo di prova per sua natura neutro, non classificabile né “a carico” né “a discarico” dell’imputato, sottratto al potere dispositivo delle parti e rimesso essenzialmente al potere discrezionale del giudice.

Su tale punto, peraltro controverso in dottrina, la giurisprudenza di legittimità assolutamente prevalente ritiene, invece, che l’ammissione della perizia sia comunque rimessa alla valutazione discrezionale del giudicante, rispetto alla quale le parti sarebbero titolari di un mero potere sollecitatorio, anche in presenza di pareri tecnici da loro prodotti.

Nel codice vigente viene utilizzata la formula “la perizia è ammessa...” (art. 220 c.p.p.) limitando la discrezionalità del giudice al solo accertamento del presupposto di ammissibilità della indagine peritale con la conseguenza che la perizia diviene obbligatoria non appena il giudice accerti la esistenza di un determinato tema di prova per il quale occorra svolgere indagini o acquisire dati o valutazioni che richiedono specifiche competenze tecniche o scientifiche.

Va riferito come nel corso dibattimento e nell’udienza preliminare il giudice può disporre d’ufficio la perizia, mentre nel corso delle indagini preliminari il giudice vi provvede, invece, solo su istanza di parte, se ricorrono i presupposti dell’incidente probatorio.

Il primo aspetto rilevante è quello relativo alla scelta del consulente tecnico.

E invero, sebbene l’art. 359 c.p.p. non contiene preclusioni o vincoli in ordine alla individuazione del consulente tecnico - limitandosi a statuire che il P.M., quando procede ad accertamenti, rilievi segnaletici, descrittivi o fotografici e ad ogni altra operazione tecnica per cui sono necessarie specifiche competenze, può nominare e avvalersi di consulenti, che non possono rifiutare la loro opera – la disposizione in esame deve essere integrata con quella di cui all’art. 73 delle disp. att. c.p.p., nella parte in cui prevede che “il P.M. nomina il consulente tecnico scegliendo di regola una persona iscritta negli albi dei periti …”.

Tale previsione è in linea con la disciplina relativa alla nomina del consulente da parte dell’organo giudicante, l’art. 221 c.p.p., stabilisce che “ il giudice nomina il perito scegliendolo tra gli iscritti negli appositi albi o tra persone fornite di particolare competenza nella specifica disciplina …”.

Il professionista incaricato non può rifiutare di assumere le funzioni di consulente tecnico del P.M., poiché detta condotta integra il reato di rifiuto di uffici legalmente dovuti di cui all'art. 366 c.p. Il rifiuto e la mancata accettazione dell’incarico di consulenza medico legale possono, tuttavia, essere giustificati da motivi riguardanti le modalità di conferimento e di espletamento dell’incarico (ad esempio, l’omesso rilascio di un’espressa autorizzazione ritenuta dal P.M. implicitamente ricompresa nell’incarico): in questo caso la condotta non integra la fattispecie penalmente rilevante (Cass. pen., Sez. VI, 9 settembre 2016 – 11 ottobre 2016, n. 42962).

Dunque, la prima questione che si è posta in passato – e che la legge Gelli/Bianco ha inteso risolvere – era quella di stabilire se, nel settore penale, vi fosse una diversa disciplina tra la fase delle indagini preliminari e la fase processuale, atteso che il P.M. “può nominare” mentre il giudice “nomina” una professionista scegliendolo tra le persone iscritte negli appositi albi.

Il problema nasceva da un equivoco di fondo, alimentato dalla formulazione letterale delle citate disposizioni, ma che in realtà era di fatto insussistente, poiché a ben vedere, già alla luce della preesistente normativa, ed in particolare sulla scorta del citato art. 73 disp. att., il P.M. sceglie “di regola” i consulenti tra coloro che risultano iscritti negli albi istituiti presso i Tribunali ( così come avviene nel caso di nomina del perito da parte del giudice): solo in via residuale è consentita la nomina, quali ausiliari di persone aventi una particolare e specifica competenza in un determinato settore, ancorché non iscritte nel relativo albo; ma in questi casi la scelta, almeno per quanto attiene all’organo giudicante, deve avvenire, ove possibile, su una persona che svolge la propria attività professionale presso un ente pubblico ed inoltre devono essere specificatamente indicate le ragioni della scelta (art. 67 disp. att. c.p.p.).

Con riferimento, poi, alla disciplina dell’iscrizione all’albo, l’art. 69 disp. att. c.p.p. stabilisce che possono ottenere l’iscrizione nell’albo le persone fornite di speciale competenza nella materia, salve le limitazioni soggettive previste dalla stessa disposizione.

Analoghe previsioni sono contemplate per il settore civile (art. 61 c.p.c. nonché artt. 13 e 22 disp. att. c.p.c.).

Pertanto, in sintesi, i codici di rito, sia nel settore penale sia in quello civile, statuiscono che i periti e i consulenti tecnici devono essere scelti tra le persone fornite di speciale competenza nella materia, iscritte di regola negli appositi albi presso il Tribunale.

La regola della scelta tra gli iscritti all’albo è derogabile con adeguata motivazione.

Appare, quindi, evidente il ruolo centrale assunto, nella scelta del consulente, dalle modalità di formazione, iscrizione e tenuta dell’albo dei consulenti e periti istituiti presso il Tribunale.

Tanto più esaustive sono le informazioni relative ai professionisti desumibili dall’albo, tanto più l’autorità giudiziaria sarà in grado di effettuare la scelta del consulente più idoneo all’accertamento del caso concreto.

A ciò si aggiunga come l’esaustività delle informazioni in ordine agli ausiliari concorre a garantire la trasparenza dell’assegnazione degli incarichi, favorendo un controllo diffuso della giurisdizione.

Il quadro normativo esaminato consente, comunque, di fronteggiare – attraverso il ricorso ad adeguata motivazione nel decreto di conferimento dell’incarico – le problematiche sottese al contesto territoriale e professionale che possono incidere nella scelta del consulente, nelle ipotesi in cui ricorrano casi di colpa medica particolari, che coinvolgano sanitari particolarmente noti e radicati nel territorio che impongano all’autorità giudiziaria di rivolgersi a soggetti diversi da quelli iscritti all’albo del Tribunale di uno specifico Circondario per evitare che la scelta ricada su soggetti comune legati da rapporti professionali, accademici e così via.

Si tratta di problematiche di non poco conto, specie se si ponga mente alla difficoltà dell’accertamento della responsabilità del sanitario e al dato che sovente le conclusioni tecniche cui perviene il C.T. del Pubblico Ministero incidono – trattandosi di valutazioni squisitamente tecniche – sulle determinazioni inerenti all’esercizio dell’azione penale e sulla richiesta di archiviazione.

In quest’ultimo caso non sono infrequenti situazioni in cui, a fronte dell’opposizione spiegata dalle persone offese  corredata dagli assunti di un consulente tecnico di parte,  il G.I.P., fissa udienza in camera di consiglio, all’esito della quale ordina al P.M. di compiere indagini coatte (art. 409, comma 4, c.p.p.) o addirittura di procedere all’imputazione coatta (art. 409, comma 5, c.p.p.).

E ancora, non mancano problemi correlati al frequente ricorso – all’interno di un dato Circondario o Distretto di Corte d’appello – di uno schema di convenzione volto ad assicurare la costante presenza di un medico legale di turno che, in cado di decesso, su indicazione del P.M. provvede all’esame esterno del cadavere e successivamente agli accertamenti autoptici.

Il meccanismo più ricorrente è quello che prevede una turnazione con sanitari o con specializzandi provenienti dalla locale facoltà di medicina, che hanno per forza di cose collegamenti con i sanitari del presidio ospedaliero all’interno del quale stanno conseguendo, in apposito reparto, la specializzazione.

Prima della legge Gelli-Bianco, la scelta da parte dei giudici della nomina di un collegio anziché di un perito unico avveniva sul territorio nazionale a macchia di leopardo.

Taluni Pubblici Ministeri e taluni Giudici, nella individuazione del consulente/perito, tentavano di uscire “fuori piazza” al fine di evitare il conflitto di interessi o anche solo imbarazzi dei medici nominati: a volte scegliendo per primo il medico legale e – quando non si avevano dei riferimenti tra gli specialisti – chiedendo direttamente al medico legale di avvalersi di uno o più specialisti del settore interessato, anche perché sovente gli albi dei professionisti risultavano spesso non aggiornati nei vari Tribunali.

La legge 8 marzo 2017, n. 24, ha inteso incidere sul quadro normativo relativo alla nomina dei consulenti e dei periti, sia nel settore civile che nel settore penale, recependo per un verso buona parte delle innovazioni giurisprudenziali, ma tentando al contempo di disciplinare il meccanismo di selezione ed individuazione di consulenti tecnici e periti.

In sintesi, in materia di responsabilità sanitaria (sia nei procedimenti civili che procedimenti penali):

-          il consulente tecnico ed il perito vanno scelti tra quelli iscritti negli albi giudiziali;

-          l’incarico va conferito a un collegio di consulenti/periti ( composto da un medico specializzato in medicina legale ed uno o più specialisti nella disciplina oggetto del procedimento);

-          consulente e perito non devono essere in posizione di conflitto di interessi nello specifico procedimento o in altri procedimenti connessi.

Nella scelta del consulente tecnico il P.M. deve muovere dalla considerazione della complessità che, in genere, contraddistingue la prestazione sanitaria cui è seguito l’evento infausto o lesivo del paziente: nella realtà pratica ogni prestazione medico-chirurgica si suddivide in una serie di operazioni sanitarie, cui sono preposti a loro volta diversi soggetti.

Appare, dunque, imprescindibile – per un corretto accertamento degli eventuali profili di responsabilità penale del sanitario o dell’équipe medica – procedere al conferimento di un incarico collegiale, in cui, la professionalità di un esperto in medicina legale sia affiancata dalla conoscenza specialistica di uno o più esperti nelle altre discipline mediche, di volta in volta interessate.

L’opzione del conferimento di un incarico collegiale offre maggiori garanzie, sia all’indagato che al paziente, di fronte a quesiti di particolare complessità, circa gli esiti dell’accertamento in ordine alla sussistenza del nesso causale tra l’evento lesivo e la condotta tenuta dal sanitario (artt. 40 e 41 c.p.) e della negligenza, imprudenza o imperizia del sanitario, quali criteri di imputazione soggettiva (art. 43 c.p.).

La collegialità dell’incarico, oltre ai vantaggi connessi al più ampio confronto sull’apprezzamento dei dati acquisiti nella fase delle indagini preliminari, consente inoltre di procedere, nel corso dell’istruttoria dibattimentale, all’escussione congiunta dei consulenti tecnici nominati, ciascuno dei quali interverrà nel corso dell’esame per la parte di specifica competenza, assicurando una migliore comprensione di tutti gli aspetti della vicenda penale oggetto di accertamento.

In ordine alla liquidazione delle spese, cambia anche il meccanismo di retribuzione del collegio di consulenti medici incaricati perché nella determinazione del compenso globale, non si applica l'aumento del 40 per cento per ciascuno degli altri componenti del collegio previsto dall'art. 53 del testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia, D.P.R. 30 maggio 2002 n. 115.

Come è noto, la citata disposizione, disciplina la collegialità sotto il profilo della liquidazione delle spese di giustizia, stabilendo che “quando l’incarico è stato conferito ad un collegio di ausiliari il compenso globale è determinato sulla base di quello spettante al singolo, aumentato del quaranta per cento per ciascuno degli altri componenti del collegio, a meno che il magistrato disponga che ognuno degli incaricati deve svolgere personalmente e per intero l'incarico affidatogli”.

La legge Gelli-Bianco con l’art 15, comma 4, cit. modifica detta norma: “nei casi di cui al c. 1 l’incarico conferito al collegio e nella determinazione del compenso globale, non si applica l'aumento del 40% per ciascuno degli altri componenti del collegio previsto dall'articolo 53 del testo unico delle disposizioni legislative regolamentari in materia di spese di giustizia, di cui al decreto presidente della Repubblica 30 maggio 2002 n. 115”.

Nasce nuovamente il problema: in assenza di disciplina transitoria occorre seguire rigidamente il principio “tempus regit actum” trattandosi di norma processuale o il criterio enunciato dalle Sezioni Unite in ambito civile a sezioni unite nel 2012 (17406/12) quando in materia di liquidazioni di onorari di avvocati era stata conferita rilevanza all’epoca in cui era prestata l’attività.

Si potrebbe propendere per questa tesi, tenuto conto anche della circostanza che i periti hanno accettato l’incarico con la vecchia disciplina.

Peraltro, molti commentatori hanno rilevato che si tratta di un dato normativo di non chiara lettura, che già all’indomani della sua entrata in vigore ha determinato il diffondersi di due opposte interpretazioni: un primo indirizzo ritiene che la nuova liquidazione del compenso spettante al collegio sarebbe costituita soltanto dal compenso per il singolo, che diventa globale; un secondo indirizzo ( di gran lunga più ragionevole) ritiene che il nuovo compenso sia costituito, come già avveniva prima dell’introduzione dell’art. 53 T.U. spese di giustizia, da quello pieno spettante a ciascuno dei componenti del collegio, essendo solo venuta meno la falcidia del 40%.

Si evidenzia, altresì, che alcuni dei primi commentatori hanno rilevato come l’art. 15 L. 24/2017 sia inidoneo ad assicurare in ogni caso la nomina di soggetti particolarmente esperti, dal momento che la necessità di scegliere all’interno di tale albo non vale né per il giudice – per il quale l’art. 221 prevede nella nomina del perito la facoltà di scelta ‘tra gli iscritti negli appositi albi o tra persone fornite di particolare competenza nella specifica disciplina’ – né tantomeno per il Pubblico Ministero – in favore del quale il combinato disposto degli articoli 359 c.p.p. e 73 disp. att. c.p.p. prescrive la possibilità di scegliere il proprio consulente senza formalità alcuna e, conseguentemente, rimane aperta la possibilità che entrambe le figure decidano di avvalersi di soggetti non ricompresi in tali elenchi.

Nondimeno, sembra possibile pervenire ad un conclusione diversa, dal momento che il tenore imperativo del nuovo art. 15 (“l’autorità giudiziaria affida l’espletamento della consulenza tecnica e della perizia a un medico specializzato ... tra gli iscritti negli albi”) appare dettare una disciplina speciale rispetto alle disposizioni codicistiche, in grado di limitare grandemente la discrezionalità di giudici e P.M., vincolandoli a selezionare i consulenti tra gli iscritti all’albo, allorché venga in questione un’ipotesi di responsabilità medica.

Va ricordato che, in data 18 ottobre 2017, è stata approvata dal Consiglio Superiore della Magistratura la Risoluzione in ordine ai criteri per la selezione dei consulenti nei procedimenti concernenti la responsabilità sanitaria.

Nella predetta risoluzione è stato messo in atto un significativo intervento consiliare volto a garantire l’effettiva uniforme applicazione della L. 24/2017, ponendo l’accento sul procedimento di revisione degli attuali albi, offrendo indicazioni sull’iscrizione agli albi, affrontando il tema della accessibilità degli albi a livello nazionale, soffermandosi sul tema del bilanciamento tra l’esigenza di scegliere soggetti dotati di esperienze e competenze specifiche, con l’esigenza della trasparenza ed imparzialità della scelta del consulente.

A tal fine si prevede anche la possibilità del tutto residuale e giustificata da ragioni di carattere eccezionale (in relazione alla specificità dell’accertamento o in considerazione di situazioni di conflitto di interesse) di fare ricorso a professionisti non iscritti all’albo dei periti del Tribunale.

Giova in questa sede muovere da una breve disamina dei passaggi propedeutici al conferimento dell’incarico peritale sulla responsabilità medica, che non devono essere sottovalutati in fase di indagine, per via dell’incidenza del decorso del tempo sulla proficuità della accertamenti che devono essere svolti in campo medico.

E invero, nelle indagini aventi ad oggetto un omicidio colposo o le lesioni personali cagionate nell’esercizio della professione sanitaria, è necessario, sin dalla comunicazione della notizia di reato, attivarsi tempestivamente per assicurare tutte le fonti di prova che potranno poi consentire l’esatta individuazione del tipo di intervento, di trattamento e/o di prestazione sanitaria cui è stato sottoposto il paziente e potranno orientare la corretta qualificazione della condotta tenuta dal sanitario o dall’equipe medica, consentendone una valutazione tecnica, alla stregua delle cd. leges artis, ossia delle regole tecnico-scientifiche che presiedono all’esercizio della professione medica.

Tale qualificazione passa attraverso la lettura e comprensione dei dati riportati nella cartella clinica e nella documentazione sanitaria in genere, riferibile al paziente.

Si tratta delle fonti di prova documentali che devono essere tempestivamente acquisite dal P.M., anche in copia, con ordine di esibizione ex art. 256 c.p.p. indirizzato al Direttore responsabile della struttura sanitaria e comunque al soggetto detentore della documentazione.

Non è esclusa la possibilità dì procedere – se la situazione concreta lo richieda –ad acquisizione originale della cartella clinica con il sequestro probatorio, disposto dal P.M. ai sensi degli artt. 253 e ss. c.p.p., o nei casi d’urgenza, quando occorra evitare il pericolo di dispersione della fonte di prova, dalla Polizia Giudiziaria che procede di iniziativa ex art. 355 c.p.p. e poi trasmette al P.M. senza ritardo – e comunque non oltre le 48 ore – il verbale di sequestro, per la convalida nelle successive 48 ore.

Proprio per garantire la celerità dell’acquisizione e della trasmissione delle notitiae criminis, allorquando si verifichino vicende di omicidio o di lesioni colpose commesse nell’esercizio della professione medica, presso le strutture sanitarie pubbliche è istituito un presidio, il c.d. Posto Fisso di Polizia, che riceve e trasmette le comunicazioni sui fatti di rilevanza penale e che, in genere, prevede anche un servizio orario per la ricezione delle denunce degli utenti.

Tornando alle fonti documentali, solo attraverso l’acquisizione di queste il consulente tecnico incaricato dal P.M. potrà compiutamente valutare la correttezza, sotto il profilo della scienza medica, dell’attività sanitaria diagnostico-terapeutica cui è stato sottoposto il paziente, accertando la sussistenza di eventuali profili di responsabilità medico-professionale nell’esecuzione dell’intervento e/o della prestazione medica o trattamento sanitario.

La cartella clinica – strumento di lavoro del personale sanitario – costituisce il presupposto indispensabile di qualsiasi prestazione sanitaria che non presenti carattere di mera episodicità e reca al suo interno la verbalizzazione delle notizie riguardanti il soggetto ricoverato, ordinate cronologicamente, al fine di tutelare la salute del paziente, mediante annotazione e documentazione del decorso clinico del degente.

In sintesi, la cartella clinica consiste nella registrazione dei rilievi clinici, degli indirizzi diagnostici e dei dispositivi terapeutici, oltre a consentire una corretta valutazione dell’attività sanitaria, sia da un punto scientifico, che da un punto di vista prettamente economico.

Per completezza, la stessa reca l’indicazione delle generalità complete del paziente, la diagnosi iniziale, l’anamnesi familiare e personale, l’esame obiettivo, gli esami di laboratorio e specialistici, la diagnosi formulata, la terapia, gli esiti e i postumi.

La cartella clinica trova nel D.P.R. 27 marzo 1969 n. 128 un importante riferimento normativo. L’art. 7 di detto decreto attribuisce al Primario (attualmente direttore dell'Unità Operativa) la responsabilità della regolare tenuta della compilazione delle cartelle cliniche, dei registri nosologici e della loro consegna all’archivio clinico per la conservazione.

L’art. 41 del decreto in esame declina, invece, la responsabilità del Direttore Sanitario sulla conservazione delle cartelle cliniche allorquando il paziente sia dimesso e queste vengano trasferite dalla Struttura di degenza all’Archivio, che per l’appunto fa parte dei servizi di cui dispone la Direzione Sanitaria.

Sul Direttore Sanitario grava, dunque, un obbligo di gestione e vigilanza sull’Archivio Sanitario; inoltre è lo stesso Direttore Sanitario che rilascia, agli aventi diritto, in base ai criteri stabiliti dall’amministrazione, copia delle cartelle cliniche e di ogni altra certificazione sanitaria riguardante i pazienti.

La cartella clinica ed i relativi referti devono essere conservati illimitatamente, in quanto atti ufficiali indispensabili a garantire la certezza del diritto, la tutela degli utenti, la raccolta di informazioni. Alla conservazione del materiale sanitario si ritengono applicabili le norme in materia archivistica (D.lgs. 30 settembre 1963, n. 1409), atteso che sotto il profilo oggettivo la cartella  clinica è un documento finalizzato all’esercizio di un pubblico servizio e quindi rappresenta un bene patrimoniale indisponibile ex art. 830 del codice civile.

Altra fonte normativa sulla cartella clinica è rinvenibile nel Codice di deontologia medica (approvato dal Consiglio Nazionale degli Ordini dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri – 2014) il cui art. 26 recita: “Il medico redige la cartella clinica, quale documento essenziale dell’evento ricovero, con completezza, chiarezza e diligenza e ne tutela la riservatezza; le eventuali correzioni vanno motivate e sottoscritte. Il medico riporta nella cartella clinica i dati anamnestici e quelli obiettivi relativi alla condizione clinica e alle attività diagnosticoterapeutiche a tal fine praticate; registra il decorso clinico assistenziale nel suo contestuale manifestarsi o nell’eventuale pianificazione anticipata delle cure nel caso di paziente con malattia progressiva, garantendo la tracciabilità della sua redazione. Il medico registra nella cartella clinica i modi e i tempi dell’informazione e i termini del consenso o dissenso della persona assistita o del suo rappresentante legale anche relativamente al trattamento dei dati sensibili, in particolare in casi di arruolamento in protocolli di ricerca”.

Infine, importanti riferimenti normativi si rinvengono nelle norme a tutela della riservatezza del paziente, in particolare nel D.lgs. 196/2003 (codice in materia di protezione dei dati personali) e nell'ampia disciplina dettata dal garante della privacy (ex multis, l'autorizzazione generale n. 2/2002 del Garante)

Quanto alla valenza giuridica della cartella clinica, la giurisprudenza di legittimità ha specificato che la cartella clinica – sia su supporto informatico e sia su supporto cartaceo – deve considerarsi un atto pubblico avente fede privilegiata,ex art. 2699 c.c. (Cass. pen., Sez. Un., 11 luglio 1992, n. 7958).

In altri termini, il predetto documento fa piena prova fino a querela di falso del decorso clinico della malattia del paziente e dei vari fatti clinici che lo interessano. Ciò, implica un’annotazione contestuale dei fatti al momento del loro verificarsi.

Naturalmente, la cartella clinica non costituisce piena prova a favore di chi l’ha compilata, in base al principio secondo cui nessuno può costituire prove a favore di se stesso (Cass. pen., 27 settembre 1999, n. 10695).

Giova soffermarsi sui profili di complessità correlati alla cartella clinica, che devono essere presi in considerazione nella fase investigativa, sia dal P.M. in sede di acquisizione delle fonti di prova documentali e dichiarative, sia dal consulente tecnico del P.M. in sede di accertamento della responsabilità del sanitario:

  1. sotto il profilo oggettivo, la cartella clinica si compone di diversi documenti la cui lettura deve avvenire in stretta correlazione: nella cartella confluiscono, infatti, i verbali inerenti il ricovero ospedaliero a seguito di intervento programmato o di accesso in Pronto Soccorso, la cartella infermieristica, il referto operatorio, la scheda anestesiologica, gli atti del trasferimento ad altro Reparto della stessa Unità Operativa, o lo spostamento ad altra Unità Operativa, il Registro di Sala Operatoria, il Registro dei Piccoli Interventi, la scheda di dimissione ospedaliera (comunemente indicata con l’acronimo S.D.O.). Il dato evincibile dalla cartella clinica può, peraltro, essere integrato e valutato anche con i dati relativi al sistema automatico di rilevazione delle presenze dei sanitari ( c.d. badge) che registra in maniera puntuale l’orario di accesso alla struttura e l’orario di uscita, nonché con il registro annuale di sala operatoria ed il registro annuale dei piccoli interventi. Sempre in punto di documentazione sanitaria, è stata prevista la transizione della stessa nel c.d. Fascicolo Sanitario Elettronico previsto con decreto del Ministro dello sviluppo economico, di concerto con il Ministro per la pubblica amministrazione e la semplificazione che ha definito gli ambiti di intervento che riguardano: l’identità digitale e i servizi innovativi (esempio: la carta d’identità elettronica, il domicilio digitale e l’anagrafe unificata), l’amministrazione digitale (pubblicazione dati in formato aperto, trasmissione obbligatoria di documenti per via telematica), i servizi e innovazioni per favorire le misure per la Sanità digitale (ex. fascicolo elettronico). A partire dal 26 novembre 2015 è stato previsto l’obbligo del FSE, un “luogo istituzionale di rete” in cui mantenere aggiornati i dati di salute del singolo cittadino.
  2. sotto il profilo soggettivo, possono figurare al suo interno più soggetti che si sono alternativamente o congiuntamente occupati del paziente: del resto, ogni prestazione medico-chirurgica, come è già stato evidenziato, si suddivide in una serie di operazioni sanitarie, cui sono preposti a loro volta diversi soggetti. A titolo esemplificativo, accanto al Primario – che riveste una posizione di garanzia nei confronti dell’assistito ed è tenuto ad attivarsi per evitare che i pazienti subiscano lesioni derivanti da interventi sanitari errati o mancanti, ad opera dei sanitari inseriti nella struttura da questi diretta – possono concorre nell’intervento o prestazione sanitaria altri soggetti: il capo ferrista, che vigila in merito alla scelta ed alla sterilizzazione degli strumenti e delle dotazioni della sala operatoria; il capo anestesista in merito all’intera fase che precede l’intervento e così via (gli atti inerenti al posizionamento del malato ed alla corretta anestesia, infatti, sono compiuti normalmente da infermieri specializzati sotto la supervisione – non già direttamente del primario bensì – del capo anestesista); il chirurgo che esegue l’intervento manuale o strumentale sul corpo del paziente; il neonatologo, che affiancherà il ginecologo e l’ostetrica nell’ipotesi in cui una gestante stia per dare alla luce un neonato che ha mostrato segni di sofferenza fetale durante l’esecuzione del tracciato cardiotocografico; o ancora il medico urogolo nelle ipotesi in cui il ginecologo stia procedendo ad un intervento di isterectomia con asportazione dell’utero e si verifichi – in corso di esecuzione – una lesione della vescica o dell’uretere per cui debba essere apposto uno stent alla paziente. Occorre pertanto delimitare l’ambito delle condotte tenute da ciascuno e tracciare il quadro delle responsabilità. Del resto una recente pronuncia della Cassazione Penale, Sezione IV, del 30 marzo 2016, n. 18780, ha ribadito che la responsabilità penale di ogni singolo componente dell’équipe per un evento lesivo occorso durante un intervento chirurgico non può essere affermata sulla scorta di un accertamento di un errore diagnostico tributato in modo generico all’équipe nel suo complesso, ma va legata alla valutazione delle concrete mansioni di ciascun componente, nella prospettiva di verifica, in concreto, dei limiti oltre che del suo operato, anche di quello degli altri. Nell’ipotesi di cooperazione multidisciplinare, ancorché non svolta contestualmente, ogni sanitario è tenuto, oltre che al rispetto dei canoni di diligenza e prudenza connessi alle specifiche mansioni svolte, all’osservanza degli obblighi derivanti dalla convergenza di tutte le attività verso il fine comune ed unico. Ne consegue che ogni sanitario non può esimersi dal conoscere e valutare l’attività precedente o contestuale svolta da altro collega, sia pure specialista in altra disciplina, e dal controllarne la correttezza, se del caso ponendo rimedio ad errori altrui che siano evidenti e non settoriali, rilevabili ed emendabili con l’ausilio delle comuni conoscenze scientifiche del professionista medio. Né può invocare il principio di affidamento l’agente che non abbia osservato una regola precauzionale su cui si innesti l’altrui condotta colposa, poiché allorquando il garante precedente abbia posto in essere una condotta colposa che abbia avuto efficacia causale nella determinazione dell’evento, unitamente alla condotta colposa del garante successivo, persiste la responsabilità anche del primo in base al principio di equivalenza delle cause, a meno che possa affermarsi l’efficacia esclusiva della causa sopravvenuta, che deve avere carattere di eccezionalità ed imprevedibilità, ciò che si verifica solo allorquando la condotta sopravvenuta abbia fatto venire meno la situazione di pericolo originariamente provocata o l’abbia in tal modo modificata da escludere la riconducibilità al precedente garante della scelta operata. Questo approccio giurisprudenziale, impone dunque una rigorosa verifica dell’operato di ciascuno dei componenti dell’equipe medica[48];
  3. ancora, sul versante soggettivo, altro aspetto critico che deve essere attentamente ponderato è rappresentato dal fatto che la cartella clinica, viene compilata dal sanitario che attesta gli atti avvenuti in sua presenza o da lui compiuti, ed è pertanto redatta, non già da un soggetto terzo, bensì dallo stesso soggetto interessato, nell’ipotesi di esito infausto dell’intervento, alle possibili implicazioni in punto di responsabilità civile o penale per l’evento lesivo cagionato al paziente. Ciò può comportare interventi manipolativi, additivi o soppressivi delle risultanze trascritte in cartella, posti in essere in un momento successivo alla redazione dell’atto, oppure all’annotazione – nella fase di stesura del documento sanitario – di dati falsi ed all’attestazione in esso di circostanze non rispondenti all’effettivo svolgimento dei fatti. E invero, i reati più significativi, che trovano la propria fonte nella redazione della cartella clinica, sono i reati di falso materiale e di falso ideologico, previsti e puniti dalle fattispecie incriminatrici delineate dagli artt. 476 e 479 del codice penale. Le norme citate tutelano l’atto pubblico sia come strumento probatorio, sia come espressione di pubblica fede; nella specie, il particolare credito che attiene agli atti formati dal pubblico ufficiale nell'esercizio delle sue funzioni. La figura criminosa del falso materiale in cartella clinica ricorre allorquando la condotta delittuosa consista in una modifica, ossia in una vera e propria manipolazione “fisica” del documento, perpetrata mediante un’aggiunta o una cancellazione, in epoca successiva alla formazione dell’atto. In tal caso l’ordinamento giuridico mira a tutelare la forma esteriore del documento. Al contrario, la configurabilità del falso ideologico in cartella clinica sussiste nel caso in cui colui che è chiamato a redigere il documento, attesti - al momento della redazione dell’atto, ossia nella cartella clinica stessa - fatti non conformi al vero: in tal caso l’ordinamento giuridico mira a tutelare la genuinità e veridicità del contenuto del documento. Com’è noto, ai fini della sussistenza dei predetti reati, è indispensabile che colui che compie un’attività illecita di alterazione o contraffazione della cartella clinica sia un pubblico ufficiale. Tali considerazioni, giustificano l’esistenza di una stretta correlazione tra la condotta delittuosa e colui che è chiamato ad esercitare pubbliche funzioni. Nell’ambito del settore medico-sanitario, può assumere la qualifica di pubblico ufficiale per esempio il Primario o Dirigente di un’unità operativa, il medico di presidio, l’infermiere, l’ostetrica ecc. e quindi tutti coloro che per la natura delle funzioni esercitate hanno la capacità, come sopra specificato, di esteriorizzare la volontà della Pubblica Amministrazione e, di conseguenza, di porre in essere delle condotte delittuose idonee a pregiudicare il corretto funzionamento della stessa Pubblica Amministrazione. Sotto il profilo soggettivo, la ricorrenza di una responsabilità penale medica è subordinata all’esistenza della coscienza e volontà nel compimento dell’azione delittuosa tipizzata dalla norma e concretizzantesi nel falso materiale o ideologico; pertanto, tutti i reati di falso sono punibili a titolo di dolo. Per quanto concerne il reato di cui all'art. 476 c.p. – che punisce il pubblico ufficiale che, nell'esercizio delle sue funzioni, forma, in tutto od in parte, un atto falso o altera un atto vero – come innanzi evidenziato, la fattispecie criminosa deve ritenersi inverata nelle ipotesi in cui il medico – successivamente alla data indicata nel diario giornaliero - ha indicato dei fatti non contestualmente al loro verificarsi (cfr. Cass. pen., Sez. V, 21 novembre 2011, n. 42917). Pertanto, secondo la giurisprudenza della Suprema Corte, affinché il reato sussista, è necessario che l'atto pubblico sia definitivamente formato. Dopo che esso sia stato definitivamente formato, integrano il reato anche modifiche o aggiunte, quand’anche il pubblico ufficiale abbia agito per stabilire la verità effettuale del documento. L’alterazione compiuta nel senso della verità dei fatti determina comunque una modificazione della verità documentale, visto che l'atto pubblico, così modificato o integrato, rappresenta una situazione diversa da quella anteriormente esposta, e così menomando il particolare credito di cui godono gli atti pubblici. Non sono invece punibili quelle mere correzioni o integrazioni che non modifichino l'elemento contenutistico dell'atto, ma siano completamento essenziale del relativo procedimento di formazione. Nel caso della cartella clinica ogni correzione o cancellazione deve consentire di leggere il testo precedente: dunque è assolutamente vietato l’utilizzo del correttore e l’operazione di cancellazione o correzione dovrà recare la data e la firma del medico che la effettua. La giurisprudenza precisa anche che non può esservi falso fin quando l'atto rimane nella disponibilità dell'agente, che può anche modificarlo, integrarlo o addirittura non farlo emergere per nulla. La cartella clinica esce dalla sfera di disponibilità del suo autore nell'istante stesso in cui l’annotazione viene registrata (Cass. Pen. 35167/2005). Per quanto concerne il reato di cui all'art. 479 c.p., la norma che punisce il pubblico ufficiale che, ricevendo o formando un atto, nell'esercizio delle sue funzioni, attesta falsamente che un fatto è stato da lui compiuto o è avvenuto alla sua presenza, o attesta come da lui ricevute dichiarazioni a lui non rese, ovvero omette o altera dichiarazioni da lui ricevute oppure attesta falsamente fati dei quali l’atto è destinato a provare la verità. Pertanto, secondo la giurisprudenza della Suprema Corte, affinché il reato sussista, è necessario che al momento della redazione della cartella vengano indicati fatti non rispondenti al vero o venga omessa l’indicazione di dati rilevanti o di eventi significativi, sì da attribuire un senso diverso al valore ed al significato dell’atto (cfr. Cassazione, Sez. 5, 10 dicembre 2014 – 5 febbraio 2015, n. 5635; Cassazione, Sez. 5, 4 novembre 2014 – 24 novembre 2014, n. 48755; nonché Cassazione, Sez. 5, 10 dicembre 2014 – 5 febbraio 2015, n. 5635, in tema di falso documentale, nella quale, la Suprema Corte ha evidenziato che “la falsità in atto pubblico può integrare il falso per omissione allorché l'attestazione incompleta - perché priva dell'informazione su un determinato fatto - attribuisca al tenore dell'atto un senso diverso, così che l'enunciato descrittivo venga ad assumere nel suo complesso un significato contrario al vero”).

Tenuto conto dei profili di complessità sin qui illustrati, al fine di accertare la responsabilità medica occorrerà acquisire ex post tutti quegli elementi che consentano per un verso, di ricostruire la porzione di condotta ascrivibile a ciascuno dei sanitari intervenuti, per altro verso, di valutare la genuinità del dato documentale evincibile dalla cartella clinica.

Ecco perché, nell’ottica di rendere proficuo ed esaustivo l’accertamento tecnico che verrà disposto dal P.M., è necessario procedere, nell’immediatezza dei fatti all’assunzione della prova dichiarativa, attraverso l’escussione del paziente (ove possibile) e delle persone informate sui fatti, per cristallizzare – prima che il tempo ne alteri il ricordo - le operazioni cui essi abbiano direttamente o indirettamente assistito.

Trattandosi di prova dichiarativa che è volta a ricostruire dei fatti e dei comportamenti che possono avere una valenza “tecnica”, è opportuno che la verbalizzazione venga curata direttamente dal P.M. ai sensi dell’art. 362 c.p.p. o, al più, sia affidata a personale di Polizia Giudiziaria altamente qualificato e opportunamente istruito sui protocolli di indagine in materia di colpa medica, che procederà ex art. 351 c.p.p. Sul punto, preme sottolineare come, nei reati di colpa medica, la prova dichiarativa non rivesta carattere subalterno o ancillare rispetto ad altre fondi di prova: non sono mancati casi in cui, proprio attraverso la puntuale ricostruzione offerta delle persone informate sui fatti è stato possibile inquadrare la condotta tenuta dal sanitario.

Le prove dichiarative offrono un significativo contributo nell’accertamento dei reati di colpa medica, andando ad  integrare le valutazioni tecniche del consulente incaricato. Peraltro, ai sensi dell’art. 359, comma 2, c.p.p., il consulente tecnico può essere autorizzato dal P.M. a prendere parte al compimento di singoli atti di indagine, tra i quali si annovera certamente l’ assunzione di dichiarazioni testimoniali.

Altro importante strumento investigativo nelle indagini di colpa medica è rappresentato dall’acquisizione di documentazione sanitaria, nella disponibilità del paziente, riferita ad accertamenti successivi all’evento lesivo, per essersi lo stesso sottoposto a controlli specialistici al fine di monitorare i postumi permanenti riportati, o per aver sostenuto trattamenti sanitari o interventi riparatori.

 

Grazie per la Vostra attenzione.

 

 

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[1] Il costo della medicina difensiva ha un impatto economico stimato nel 10% del totale della spesa sanitaria (10 miliardi di euro) con un costo pro capite di euro 165 (fonte sole 24ore). 

[2] Però in senso inverso il Trib. di Milano con la sentenza 23.7.2014, n. 9693 (estensore dott. Gattari) in maniera discordante rispetto al pensiero della maggioranza dell’epoca così scriveva:  << sembra dunque corretto interpretare la norma nel senso che il legislatore ha inteso fornire all’interprete una precisa indicazione nel senso che, al di fuori dei casi in cui il paziente sia legato al professionista da un rapporto contrattuale, il criterio attributivo della responsabilità civile al medico (e agli altri esercenti una professione sanitaria) va individuato in quella della responsabilità da fatto illecito ex art. 2043 c.c. con tutto ciò che ne consegue sia in tema di riparto dell’onere della prova, sia di termine di prescrizione quinquennale del diritto al risarcimento del danno >>. Ed ancora che: << Così interpretato, l’art. 3, comma 1 l.n. 189/29012 8legge Balduzzi) porta dunque inevitabilmente a dover rivedere l’orientamento giurisprudenziale pressochè  unanime dal 1999 he riconduce in ogni caso la responsabilità del medico all’art. 1218 c.c. , anche in mancanza di un contratto concluso dal professionista con il paziente >>.   

[3] Responsabilità ex art. 1218 c.c. dell’ASL per l’errore commesso dal medico di base

[4] In particolare nella categoria degli interventi di facile esecuzione vengono ricomprese quelle operazioni che “non richiedono una particolare abilità tecnica, essendo sufficiente una preparazione professionale ordinaria, ed il rischio di esito negativo, o addirittura peggiorativo, è minimo, potendo derivare, al di fuori della colpa del chirurgo, dal sopravvenire di eventi imprevisti e imprevedibili secondo l’ordinaria diligenza professionale oppure dall’esistenza di particolari caratteristiche del paziente non accertabili col medesimo criterio di diligenza professionale”. Negli interventi di difficile esecuzione, invece, richiamando la giurisprudenza previgente, vengono inclusi quei casi straordinari ed eccezionali da non essere ancora adeguatamente studiati o sperimentati nella pratica.

 

[5] R. Breda, Responsabilità medica tra regole giurisprudenziali e recenti interventi normativi, in Contr. e impr., 2014, 785.

[6] (M. Rossetti, Unicuique suum, ovvero le regole di responsabilità non sono uguali per tutti [preoccupate considerazioni sull’inarrestabile fuga in avanti della responsabilità medica], in Giust. civ., 2010, 2218 ss.; in senso analogo F. Agnino, La responsabilità medica: lo stato dell’arte della giurisprudenza tra enforcement del paziente e oggettivazione della responsabilità medica, in Corr. giur., 2011, 628.).

[7] M. Faccioli, L’onere della prova del nesso di causalità nella responsabilità medica: la situazione italiana e uno sguardo all’Europa, in Resp. civ., 2012, 333 ss.: in questo senso significativa è la giurisprudenza tedesca, la quale obbliga il paziente alla dimostrazione del nesso causale, fatta eccezione per l’ipotesi in cui venga accertato un errore grossolano e sempre che tale errore sia tale da aver ipoteticamente potuto cagionare una lesione del medesimo tipo di quella sofferta dal paziente. Ugualmente i giudici inglesi, pur utilizzando il ragionamento presuntivo res ipa loquitur, negano che il nesso causale si possa considerare presunto nellecontroversie concernenti la responsabilità medica. Nella stessa direzione si è indirizzata sia la giurisprudenza scozzese sia quella spagnola, le quali non consentono di invertire l’onere della prova relativa alla sussistenza del nesso causale a favore del paziente. Anche in Olanda si esclude tale facoltà: i giudici olandesi, infatti, preferiscono porre rimedio alle difficoltà probatorie del paziente danneggiato, insistendo sul dovere dell’operatore sanitario convenuto in giudizio di fornire al primo tutta la documentazione necessaria a dimostrare la sussistenza della propria responsabilità.

[8] Cass., ord. 15 febbraio 2018, n. 3693; Cass., ord. (ud. 14 febbraio 2018) 31 maggio 2018, n. 13752 e Cass., ord. (ud. 20 febbraio 2018) 31 maggio 2018, n. 13766; Cass., ord. 19 luglio 2018, n. 19199 e Cass., ord. 13 luglio 2018, n. 18549, in Foro It., 2018, I, 3582 e segg., con nota di R. Pardolesi-R. Simone, Tra discese ardite e risalite: causalità e consenso in campo medico; Cass., 20 agosto 2018, n. 20812; Cass., 22 agosto 2018, n. 20905.

[9] Cass., ord. 15 febbraio 2018, n. 3693, par. 1.2.

[10] Cass., ord. 15 febbraio 2018, n. 3693, par. n. 1.3.

 

[11] F. Piraino, Il nesso di causalità materiale nella responsabilità contrattuale e la ripartizione dell’onere della prova, in Giut. It. 3/2019, pg. 709 e ss.

[12] La Corte di Cassazione a Sez. Un. Penali con la pronuncia de l21.12.2017, n. 8770 pubblicata il 22 febbraio 2018 riconosce come fondamentale un procedimento pubblicistico per la formalizzazione delle linee guida. La sentenza delle Sezioni Unite,  esprime grande ottimismo rispetto a questo sistema di accreditamento, reputato un “valore aggiunto della novella”. Secondo la Corte infatti, «la utilità della descritta introduzione delle linee-guida, pubblicate a cura del competente istituto pubblico, resta indubbia», sia per gli operatori sanitari, sia per i giudici:

-          «da un lato, una volta verificata la convergenza delle più accreditate fonti del sapere scientifico, [le linee guida ‘ufficiali’] servono a costituire una guida per l'operatore sanitario, sicuramente disorientato, in precedenza, dal proliferare incontrollato delle clinical guidelines. Egli è oggi posto in grado di assumere in modo più efficiente ed appropriato che in passato, soprattutto in relazione alle attività maggiormente rischiose, le proprie determinazioni professionali. Con evidenti vantaggi sul piano della convenienza del servizio valutato su scala maggiore, evitandosi i costi e le dispersioni connesse a interventi medici non altrettanto adeguati, affidati all'incontrollato soggettivismo del terapeuta, nonché alla malpractice in generale;

-          dall'altro lato, la configurazione delle linee-guida con un grado sempre maggiore di affidabilità e quindi di rilevanza – derivante dal processo di formazione – si pone nella direzione di offrire una plausibile risposta alle istanze di maggiore determinatezza che riguardano le fattispecie colpose qui di interesse. Fattispecie che, nella prospettiva di vedere non posto in discussione il principio di tassatività del precetto, integrato da quello di prevedibilità del rimprovero e di prevenibilità della condotta colposa, hanno necessità di essere etero-integrate da fonti di rango secondario concernenti la disciplina delle cautele, delle prescrizioni, degli aspetti tecnici che in vario modo fondano il rimprovero soggettivo». Vi è da dire però che le linee guida italiane NON sono ancora entrate in vigore secondo il modello previsto dalla legge Gelli.

 

[13] Cass., sez. IV, 11.7.2012, n. 35922; il sanitario deve modellare le direttive, adattandole alle contingenze che momento per momento gli si prospettano nel corso dello sviluppo della patologia e, in alcuni casi, vi deve addirittura derogare radicalmente. Sebbene in relazione alla patologia trattata le linee guida indichino una determinata strategia, le peculiarità dello specifico caso potrebbero suggerire addirittura di discostarsi radicalmente dallo standard, cioè di disattendere la linea d’azione ordinaria (es: caso in cui la presenza di patologie concomitanti imponga di tenere in conto anche i rischi connessi alle altre affezioni e di intraprendere, quindi, decisioni anche diverse rispetto alla prassi ordinaria [Cass., sez. 29.1.2013 n. 16237].  Ancora Cass., 30 novembre 2018, n. 30998 est. Rossetti, secondo cui le linee guida “non rappresentano un letto di Procuste insuperabile” bensì sono da considerarsi come un mero parametro di valutazione della condotta del medico. Se è vero che una condotta conforme alle linee guida sarà sicuramente diligente, è altrettanto vero che una condotta dei sanitari che si discosti da quanto previsto dalle linee guida potrà essere negligente oppure diligente, se nella fattispecie concreta esistevano particolarità tali che imponevano di non osservarle. Viceversa, una condotta conforme alle line guida, ma inadatta alle peculiarità del caso concreto, potrà essere colposa.  

[14] Il Consigliere Rossetti della S.C. sul punto, in uno scritto dottrinale  ed nella Rivista (l’Accertamento della colpa medica e l’importanza delle “Linee guida” in de iure – RIDARE) così scrive: << In linea generale sì, tuttavia bisogna tener presente che le linee guida non sono una norma di legge, e che non hanno efficacia vincolante assoluta. Dunque, di norma, sarà in colpa il medico che nell'esecuzione della terapia della prestazione dell'intervento a lui richiesti non osserva le linee guida, di norma non sarà in colpa il medico che si  attiene alle linee guida. Tuttavia bisogna tener presente che queste linee guida rappresentano soltanto un parametro generale di giudizio occorre sempre calare l’esame della condotta del medico e della natura colposa di questa nel caso specifico. Dunque possono ben darsi situazioni in cui le condizioni del paziente, le condizioni spaziali, le condizioni temporali, le condizioni cliniche esigono o addirittura impongono al medico un allontanamento dalle linee guida. Dunque è vero anche l'opposto che in determinati casi in virtù delle circostanze specifiche del caso concreto può essere ritenuto esente da colpa il medico che si sia allontanato dalle linee guida. Ricordo ad esempio la vicenda di un politraumatizzato vittima di un sinistro stradale che aveva una idiosincrasia accertata nei confronti dei farmaci trombolitici, viene portato al pronto soccorso e il medico del pronto soccorso non gli somministra questo farmaco, necessario per tutti i politraumatizzati per evitare la formazione di trombi. Sfortuna volle che questo paziente di lì a poco morì proprio a causa della formazione di un trombo, i congiunti convennero in giudizio il sanitario adducendo che questi non aveva somministrato quel farmaco la cui somministrazione era prescritta dalle linee guida, in quel caso tuttavia il medico vinse la lite dimostrando che egli fu costretto a compiere un'analisi costi-benefici. Se avesse somministrato quel farmaco come prescritto dalle linee guida, il paziente sicuramente moriva perché aveva una idiosincrasia accertata verso il farmaco, non somministrandolo invece solo eventualmente avrebbe corso un pericolo di vita. Questo è un esempio direi paradigmatico, un esempio di scuola di un caso in cui il medico non si attiene alle linee guida ma non è in colpa perché esistevano circostanze oggettive che giustificavano l’allontanamento da esse.  >> Ulteriore quesito è se le linee guida siano o meno vincolanti per il medico e per il giudice. Ancora e sul punto il Cons. Rossetti così risponde : << Ci siamo già detti che le linee guida sono un mero parametro di valutazione della condotta tenuta dal medico.  Quindi di norma sarà in colpa il medico che non le osserva. In quanto parametro di valutazione della condotta dovranno essere osservate necessariamente anche dal giudice o meglio, dovranno essere assunte dal giudice a criterio fondante la propria decisione, non potrà ritenere in colpa in assenza di specificità del caso concreto un medico che si sia attenuto le linee guida >>. E da ultimo l’ attore ha l’onere di allegare sin dalla citazione le linee guida che si assumono violate dal medico? Assolutamente sì, sebbene in un solo isolato caso la Corte di Cassazione abbia pronunciato la sentenza su questo punto come dire parzialmente extra vagans,  l’onere di allegazione è un presupposto necessario per consentire al convenuto l'esercizio del diritto di difesa. Se l'attore non allega che in cosa il medico ha sbagliato, il medico non può essere posto in condizione di sollevare le proprie eccezioni e le proprie difese, né del resto posto in condizione di sapere se l'attore ha ragione quindi, come dire, se accondiscendere, accogliere, adempiere la propria obbligazione. Osservare l’onere di allegazione vuol dire che l'attore deve dire quale è stato l'errore commesso dal medico senza tecnicismi, senza particolari approfondimenti teorici ma deve spiegare se il medico ha sbagliato nel porre la diagnosi, nell’eseguire l'intervento, nell’assistere il paziente nel decorso post operatorio e via dicendo.

 

[15] Sul punto la Cassazione ha ribadito: “Le linee guida rappresentano sì un valido ausilio scientifico per il medico che con queste si deve confrontare, ma non fanno venir meno l'autonomia del professionista nelle scelte terapeutiche perchè l'arte medica, non basandosi su protocolli a base matematica, è suscettibile di accogliere diverse pratiche o soluzioni efficaci, nel cui alveo scegliere in relazione alle varianti del caso specifico che solo il medico può apprezzare in concreto. Dal punto di vista del giudizio sulla colpa del medico, il giudice resta libero di apprezzare se l'osservanza o il discostamento dalle linee guida avrebbero evitato il fatto che si imputa al medico e cioè se le circostanze del caso concreto imponessero o meno l'adeguamento alle linee guida a disposizione del medico, oppure una condotta diversa da quella descritta in dette linee guida. L’adeguamento o il mancato adeguamento del medico alle linee guida non esclude né determina di per se la colpa dello stesso. Tali linee guida infatti, contengono valide indicazioni generali riferibili al caso astratto, ma è altrettanto evidente che il medico è sempre tenuto ad esercitare le proprie scelte considerando le circostanze peculiari che caratterizzano il caso concreto e la specifica situazione del paziente. La verifica circa il rispetto delle linee guida va, pertanto, sempre affiancata ad un’analisi, svolta eventualmente attraverso perizia, della correttezza delle scelte terapeutiche alla luce della concreta situazione in cui il medico si è trovato ad intervenire” (Cass. pen. 11.07.2012 n. 35922).

 

[16]È di tutta evidenza che, allorquando il medico (o la struttura ospedaliera) ha provato di aver esattamente adempiuto la propria obbligazione, e cioè di aver rispettato tutte le norme di prudenza, diligenza e perizia, i protocolli e le linee-guida più accreditate nel proprio settore di competenza, il paziente non può invocare l’art. 1218 c.c., neppure in presenza di un acclarato peggioramento delle proprie condizioni di salute in rapporto di causalità con la prestazione sanitaria. L’art. 1218 c.c. infatti presuppone l’inadempimento dell’obbligazione assunta, inadempimento che non sussiste quando vi è in concreto la prova positiva dell’adoperata diligenza”.

[17] M. Caputo, Filo d’Arianna o flauto magico? Linee guida e checklist nel sistema della responsabilità per colpa medica, in Riv. it. dir. proc. pen., 2012, 875 ss.; si veda anche le osservazioni di M. Paladini, op. cit., 881 ss.

[18] L’allegazione si rende necessaria ai fini della verifica della correttezza e scientificità delle stessa: solo nel caso di linee guida conformi alle regole della migliore scienza medica è possibile infatti utilizzare le medesime come parametro per l’accertamento dei profili di colpa ravvisabili nella condotta del medico, ed attraverso le indicazioni fornite dalle stesse, sarà possibile per il giudicante valutare la conformità ad esse della condotta del medico al fine di escludere profili di colpa. (Cass. pen. 09.10.2015 n. 40708).

[19] Prima la legge Balduzzi, poi la riforma Gelli, rimandano all’applicazione del modello risarcitorio operante, attraverso gli artt. 138 e 139 cod. ass., in materia di sinistri stradali, il quale risulta imperniato su una compressione della risposta risarcitoria poichè fondato, da un lato, sull’adozione di valori del punto di invalidità permanente di gran lunga inferiori rispetto a quelli abitualmente praticati dalla giurisprudenza e, dall’altro lato, sulla previsione di un tetto massimo al risarcimento entro il quale viene ricondotto l’intero ventaglio delle ripercussioni non patrimoniali patite dalla vittima.

[20] Cassazione 7 giugno 2011, n. 12408.

[21] Si è inoltre discusso in dottrina circa la necessità della presenza personale delle parti al procedimento di ATP ex art. 8 così come avviene per il valido esperimento del procedimento di mediazione. Tuttavia, poiché l'ATP conciliativa, pur mirando alla conciliazione, è un procedimento giudiziario (a differenza di quello della mediazione) e visto che nella l. n. 24/2017 si parla non di presenza delle parti assistite dal difensore (come invece nel d.lgs. n. 28/2010) ma solo di partecipazione necessaria al procedimento, si è sostenuto che non possa estendersi all'ATP conciliativo il detto orientamento sulla presenza personale delle parti (che peraltro nel caso di specie andrebbe incontro molto spesso alla deroga costituita dalla possibile procura per la materiale impossibilità di presenziare, venendo in questione frequentemente strutture sanitarie coinvolte in numerosi contenziosi e Compagnie di assicurazione).

 

[22] Nozione di colpa grave “ Non ogni condotta diversa da quella doverosa implica colpa grave ma solo quella che sia caratterizzata da particolare negligenza, imprudenza od imperizia e che sia posta in essere senza l’osservanza, nel caso concreto, di un livello minimo di diligenza, prudenza o perizia, … livello minimo che dipende dal tipo di attività concretamente richiesto all’agente, e dalla sua particolare preparazione professionale, in quel settore della P.A. al quale è preposto” (Corte dei Conti Sicilia, n. 1015 del 28.3.2012). 

[23]se l’esercente la professione sanitaria non è stato parte del giudizio o della procedura stragiudiziale di risarcimento del danno, l’azione di rivalsa nei confronti di quest’ultimo può essere esercitata soltanto successivamente al risarcimento avvenuto sulla base di titolo giudiziale o stragiudiziale ed è esercitata, a pena di decadenza, entro un anno dall’avvenuto pagamento”. 

 

[24] L’art. 9 n. 5 prevede che: << in caso di accoglimento della domanda di risarcimento proposta dal danneggiato nei confronti della struttura sanitaria o sociosanitaria pubblica, ai sensi dei commi 1 e 2 dell’art. 7, o dell’esercente la professione sanitaria, ai sensi del comma 3 del medesimo articolo 7, l’azione di responsabilità amministrativa, per dolo o colpa grave, nei confronti dell’esercente la professione sanitaria è esercitata dal pubblico ministero presso la Corte dei Conti >>.

[25] Art. 13 così prescrive: << le strutture sanitarie e sociosanitarie di cui all’art. 7, comma 1, e le imprese di assicurazione che prestano la copertura assicurativa nei confronti dei soggetti di cui all’art. 10, commi 1 e 2, comunicano all’esercente la professione sanitaria l’instaurazione del giudizio promosso nei loro confronti dal danneggiato, entro dieci (ora 45) dalla ricezione della notifica dell’atto introduttivo, mediante posta elettronica certificata o lettera raccomandata, con avviso di ricevimento contenente copia dell’atto introduttivo del giudizio. Le struttura sanitarie e sociosanitarie e le imprese di assicurazione entro dieci giorni comunicano all’esercente la professione sanitaria, mediante posta elettronica certificata o lettera raccomandata con avviso di ricevimento, l’avvio di trattative stragiudiziali con il danneggiato, con invito a prendervi parte. L’omissione, la tardività o l’incompletezza delle comunicazioni di cui al presente comma preclude l’ammissibilità delle azioni di rivalsa o di responsabilità amministrativa di cui all’art. 9>>.

 

[26] Corte dei Conti, Sicilia, 15.12.2003, n. 259.

[27] Corte dei Conti, Reg. veneto, 17.4.2009. n. 322. 

[28] Ai sensi dell’art.27 co.1 bis, del decreto legge 24.06.2014 n.90, convertito con modificazioni dalla legge 11 agosto 2014 n.114.

[29] “Va dunque evidenziato che, nonostante il sistema normativa sia cambiato, bisognerà verificare se il ricorso alla “medicina difensiva” verrà effettivamente ridotto. Infatti secondo una ricerca di Marsh (leader mondiale nell’intermediazione assicurativa e nella gestione dei rischi) nel periodo 2004-2014 tra le unità operative più “incriminate” vi è l’ortopedia (13,1%) seguita dalla chirurgia generale (12%), pronto soccorso (11,5%) e ostetricia/ginecologia (8,4%)” (Il Sole 24ore – 12.04.17).

 

[30] In ogni caso le condizioni generali di operatività delle analoghe misure, anche di assunzione diretta del rischio, richiamate dal comma 1, le regole per iltrasferimento del rischio nel caso di subentrocontrattuale diun’impresadiassicurazione, la previsione nel bilancio delle strutture di un fondo rischi e di un fondo costituito dalla messa a riserva per competenza dei risarcimenti relativi ai sinistri denunciati e i requisiti minimi delle polizze assicurative per le strutture sanitarie e sociosanitarie pubbliche e private e per gli esercenti le professioni sanitarie, con l’individuazione di classi di rischio a cui far corrispondere massimali differenziati, saranno oggetto di disciplina nell’emanando Decreto che si spera possa dissipare dubbi e perplessità o, quantomeno, non introdurne di nuovi.

 

[31] Claims made o trigger , letteralmente “grilletto”, ad indicare il meccanismo che fa scattare la copertura assicurativa, viene utilizzato per definire la validità temprale della copertura stessa. In questo caso si riferisce al funzionamento dell’assicurazione su base claims made, o a “richiesta fatta”. E’ anche possibile che una polizza funzioni con altri tipi di trigger. Su base “loss occcurance” ovvero in base alla data di accadimento dell’evento assicurato, “manifestation”, dalla data in cui l’evento assicurato ha manifestato i suoi effetti, oppure “acts committed” ad indicare la data dell’azione che ha prodotto l’illecito oggetto della copertura.

 

[32]Cass. SS.UU. 6.5.2016, n. 9140 secondo cui: << nel contratto di assicurazione della responsabilità civile la clausola che subordina l’operatività della copertura assicurativa alla circostanza che tanto il fatto illecito quanto la richiesta risarcitoria intervengano entro il periodo di efficacia del contatto o. comunque, entro determinati periodi di tempo, preventivamente individuati (c.d. claims made mista o impura) non è vessatoria, essa in presenza di determinate condizioni, può tuttavia essere dichiarata nulla per difetto di meritevolezza ovvero,  laddove sia applicabile la disciplina di cui al d.lgs. n. 206 del 2005, per il fatto di determinare, a carico del consumatore, un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti dal contatto; la relativa valutazione, da effettuarsi dal giudice di merito, è incensurabile in sede di legittimità, ove congruamente motivata. >>. 

[33] Art. 144 d.lgs. 7.9.2005, n. 209 – azione diretta del danneggiato: << 1. Il danneggiato per sinistro causato dalla circolazione di un veicolo o di un natante, per i quali vi è obbligo di assicurazione, ha azione diretta per il risarcimento del danno nei confronti dell’impresa di assicurazione del responsabile civile, entro i limiti delle somme per le quali è stata stipulata l’assicurazione. 2. Per l’intero massimale di polizza l’impresa di assicurazione non può opporre al danneggiato eccezioni derivanti dal contratto, né clausole che prevedano l’eventuale contributo dell’assicurato al risarcimento del danno. L’impresa di assicurazione ha tuttavia diritto di rivalsa verso l’assicurato nella misura in cui avrebbe avuto contrattualmente diritto di rifiutare o ridurre la propria prestazione. 3. Nel giudizio promosso contro l’impresa di assicurazione è chiamato anche il responsabile del danno.

[34] M. Hazan, - Azione diretta del soggetto danneggiato, in La nuova responsabilità professionale in Sanita, Commentario alla riforma Gelli – Bianco.

[35]Anche dopo la novella di cui alla l. 27 febbraio 2015, n. 18 che ha lasciato immutato il contenuto dell’art. 2 della legge 117 del 1988 (Responsabilità dei Magistrati) è previsto che non può darsi luogo a responsabilità del giudice la interpretazione di norme di diritto né quella di valutazione del fatto o delle prove; si svolge poi un elenco di casi di colpa grave: a. grave violazione di legge determinata da negligenza inescusabile; b. affermazione determinata da negligenza inescusabile di un fatto la cui esistenza è incontrastabilmente esclusa da atti del procedimento; c. la negazione, determinata da negligenze inescusabili, di un fatto la cui esistenza risulta incontrastabilmente dagli atti del procedimento; d. emissione di un provvedimento concernente la libertà personale fuori dei casi consentiti dalla legge oppure senza motivazione.   

[36]Art. 2236 c.c. (rubricato “Responsabilità del prestatore d’opera”)  stabilisce : “ se la prestazione implica la soluzione di problemi tecnici di speciale di difficoltà, il prestatore d’opera non risponde dei danni se non in caso di dolo o colpa grave “.

[37]Percorsi di audit, studio dei processi interni e delle criticità più frequenti, segnalazioni anonime di quasi errori  (near – miss) messa in sicurezza di percorsi sanitari. Verbali ed atti di conseguenti all’attività di gestione aziendale del rischio clinico, svolta in occasione del verificarsi di un evento avverso gestione.  

[38] I commi 1 e 2 dell’art. 4 sono dedicati alla gestione dei dati relativi alle singole prestazioni sanitarie erogate dalle strutture pubbliche e private. Entrami i commi rinviano alle disposizioni di cui al Codice in materia di protezione dei dati personali (dlgs. 30.6.2003, n. 196). L’unica novità della riforma è rappresentata dai seguenti termini decorrenti dalla presentazione della richiesta da parte degli interessati aventi diritto. Entro sette giorni la direzione sanitaria della struttura pubblica o privata fornisce la documentazione sanitaria disponibile relativa al paziente, preferibilmente in formato elettronico.  Entro trenta giorni la direzione fornisce le “eventuali integrazioni”.

[39] Il presente contributo è stato redatto dall’Avv. Catello Vitiello, avvocato penalista del Foro di Torre Annunziata nonché Dottore di ricerca in Sistema penale e processo, autore di contributi in opere collettanee e di articoli in riviste specializzate.

[40] Si veda, tra gli altri, O. DI GIOVINE, Colpa penale, Legge Balduzzi e disegno di legge Gelli- Bianco: il matrimonio impossibile tra diritto penale e gestione del rischio clinico, in Cass. Pen.,2017, 1, 386 ss., secondo la quale “la distinzione tra imprudenza, imperizia e negligenza, di lana caprina, sembrava relegata nel capitolo storico del diritto penale (certo, veniva menzionata nelle trattazioni sulla colpa che però nelle centinaia pagine a seguire se ne disinteressavano). Basti pensare che le diverse manifestazioni della colpa non sono perfettamente distinguibili (si sovrappongono) e che quest'ultima può consistere anche di tutte e tre insieme”.

[41] G.M. CALETTI – M.L. MATTHEUDAKIS, La fisionomia dell’art. 590-sexies c.p. dopo le Sezioni Unite tra “nuovi” spazi di graduazione dell’imperizia e “antiche” incertezze, in Diritto Penale Contemporaneo, n. 4/2018.

[42] R. BLAIOTTA, Niente resurrezioni, per favore. A proposito di S.U. Mariotti in tema di responsabilità medica, in Diritto Penale Contemporaneo (versione online.)

[43] R. BARTOLI, Riforma Gelli-Bianco e Sezioni Unite non placano il tormento: una proposta per limitare la colpa medica,in Diritto Penale Contemporaneo,  n. 5/2018.

[44] C. CUPELLI, L’art. 590-sexies c.p. nelle motivazioni delle Sezioni Unite: un’interpretazione “costituzionalmente conforme” dell’imperizia medica (ancora) punibile, in Diritto Penale Contemporaneo, n. 3/2018; l’Autore dubita fra l’altro che la soluzione ermeneutica offerta dalla sentenza Mariotti “rientri nei canoni interpretativi consentiti al giudice, sia pure di legittimità e nell’ambito dell’attività nomofilattica”.

[45] C. BRUSCO, Responsabilità medica penale: le Sezioni Unite applicano le regole sulla responsabilità civile del prestatore d’opera, in Diritto Penale e Processo, n. 5/2018, p. 646.

[46] P.PIRAS, Un distillato di nomofilachia: l’imperizia lieve intrinseca quale causa di non punibilità del medico, in Diritto penale contemporaneo (versione online).

[47] Nella stessa pronunzia viene precisata la nozione di “linee guida”, che consistono in “raccomandazioni di comportamento clinico sviluppate attraverso un processo sistematico di elaborazione per coadiuvare medici e pazienti nel decidere quali siano le modalità di assistenza più appropriate in specifiche circostanze cliniche”.

[48]Sul punto, si segnalano altre pronunce di interesse quali , ad esempio, Cass. pen., sez. IV, 15 maggio 2014, n. 35953: “ E’ da considerarsi giuridicamente negligente il comportamento del medico che, pur tecnicamente competente, si fida in modo acritico delle direttive impartite dal collega più anziano, membro della medesima équipe”; Cass. pen., sez. III, 12 dicembre 2013, n. 5684: “In tema di responsabilità medica, la responsabilità dell’errore verificatosi durante l’operazione chirurgica ricade, oltre che sul primario che ha materialmente eseguito l’intervento, anche sugli altri membri dell’équipe solo se questi sono chiamati a effettuare scelte terapeutiche e omettano di segnalarne la inidoneità o la rischiosità; e non se, come nel caso di specie, tali figure operino solamente in qualità di aiutanti o assistenti”. Cass. pen., 11 ottobre 2012, n. 44830: “La responsabilità è dell’intera équipe nel caso in cui sia omessa la programmazione globale delle varie fasi dell’intervento, non solo dunque quella principale ma anche, ad esempio, quella post operatoria. È onere dei sanitari prevedere rischi gravi ed evidenti, a prescindere dalle competenze di ciascuno”. Cass. pen., sez. IV, 4 ottobre 2012, n. 43459: “L’istituto della responsabilità medica d’équipe ha il fine ultimo di garantire, nel complesso, la buona riuscita del trattamento sanitario. Per tale ragione, quando i sanitari agiscono in concorso professionale le relative responsabilità non risultano limitate dalle singole incombenze di ciascuno – salvo la maggior gravità che sorge a carico del c.d. capo équipe – essendo irrilevante sul piano penale l’esimente dell’atto di delega di funzioni tra professionisti, essendo l’istituto stato strutturato a globale garanzia del paziente”. Cass. pen., sez. IV, 7 marzo 2008, n. 15282: “Non è consentita la delega tra professionisti in caso di operazione chirurgica eseguita in équipe poichè ciò renderebbe vano il carattere integrato e plurale del controllo a tutela del paziente. Dunque tutti i soggetti coinvolti nell’intervento sono onerati a fronteggiare il grave rischio di lasciare oggetti estranei nel corpo del paziente”. Cass. pen., sez. IV, 26 gennaio 2005, n. 18568: “Il principio di affidamento nella responsabilità medica da intervento in équipe non opera laddove sia lo stesso affidatario a violare norme precauzionali o non abbia tenuto determinati comportamenti confidando che altri possano porre rimedio alla sua situazione omissiva. Ne consegue che il nesso causale tra condotta ed evento dannoso ne risulta spezzato, non potendo la condotta omissiva essere qualificata quale fatto eccezionale e sopravvenuto, di per sé sufficiente a produrre l’evento”.

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